Non
mi dimenticherò mai di quel giorno in cui lo
conobbi né del modo con cui lo conobbi. Fu una
di quelle rivelazioni piene, ardenti,
istantanee; una di quelle espansioni d'animo
pronte e complete che non si fanno, non si
ricevono e non si conoscono che a quattordici
anni. A quell'età gli affetti sono subiti come i
rancori, le amicizie rapide come gli affetti,
gli affetti inconsiderati come le ire. A
quattordici anni si amano tutti coloro che hanno
quattordici anni. Più tardi si amano tutti
indistintamente, che è lo stesso che dire che
non si ama nessuno, perché non si predilige
nessuno.
Chi ha riconosciuto Eugenio M., chi n'ebbe le
confidenze e l'affetto, si sarà ricordato di
quell'epoca della vita in cui si pensa, si opera
e si ama in un modo così diverso dagli altri; di
quell'età, pensando alla quale è impossibile che
non si abbia ad esclamare più tardi: "Quanto io
era allora migliore!".
Eugenio aveva però toccati i ventiquattro anni
quando io lo conobbi, teneva ancora del
fanciullo, ma aveva già in tutto dell'uomo;
avesse egli vissuto una lunga esistenza sarebbe
pur sempre rimasto uomo e fanciullo ad un'ora.
Coloro che nella scorsa primavera solevano
passeggiare nelle prime ore del giorno nel
pubblico giardino di Milano, si ricorderanno
forse di avervelo veduto. Era una figura bella e
patita, un viso di fanciulla a tratti virili, un
volto bianco che si vedeva essere stato un tempo
rosato, una testa a capelli castani e ad onde
poco marcate – aveva baffetti fini e nascenti –
era amputato della gamba sinistra a metà il
femore e si trascinava appoggiandosi ad una
stampella da un fianco, e sorreggendosi
dall'altra con una grossa canna di giunco.
Chi lo vide n'ebbe pietà, chi lo conobbe
intimamente ne pianse: nessuno può averlo veduto
o conosciuto che non ne abbia serbato memoria.
Io soleva recarmi tutti i giorni in quel
giardino, e ve lo trovava ogni volta: spesso vi
andavamo entrambi sì per tempo, che non v'erano
altre persone in fuori di noi, né potevamo non
incontrarci, né esimerci da un sentimento
d'interesse reciproco, che ci traeva ad
osservarci vicendevolmente. Dal canto mio vi era
della pietà, dal lato suo della simpatia; in
entrambi una curiosità affettuosa dei nostri
casi e di noi. Non ci avevamo parlato, ma
ardevamo di farlo; io sapeva che egli lo
desiderava, egli era certo che io divideva il
suo desiderio, e pure nessuno di noi aveva osato
rompere il silenzio. Se ci passavamo d'accanto,
il saluto ci moriva sulle labbra; se ci
trovavamo seduti sulla medesima panca, i nostri
cuori tentavano di avvicinarsi, i nostri sguardi
si dirigevano a due punti opposti – era
un'attrazione ed una repulsione continua –
spesso io me ne doleva, poi ne rideva meco
tacitamente: mancavaci un'occasione che ci
mettesse in pace col nostro orgoglio; e non
tardò a giungere.
Un mattino io gli passava dappresso, quando
egli, nel ritrarre la sua stampella che erasi
affondata un poco nel terreno ancora molle di
pioggia, uscì d'equilibrio e cadde. Io mi
precipitai sopra di lui, e rialzatolo, gli
offersi il mio braccio, lo pregai a riposarsi
sopra un sedile, e me gli sedetti dappresso.
Tacemmo per qualche istante; la nostra
situazione era sì penosa e quell'imbarazzo
parevami così puerile che volli uscirne ad ogni
costo: ruppi il silenzio con una esclamazione
d'obbligo in queste circostanze:
"Che bel mattino!".
"Magnifico!" egli disse.
E come indispettitosi del mio ritegno e del suo,
mostrandomi ch'egli vi s'era meno incaponito di
me, e che era più uomo di me all'occorrenza,
aggiunse con suono diverso di voce:
"È singolare! Vi sono delle abitudini di
società, delle esigenze d'amor proprio che non
esitiamo un istante a disapprovare, ma dalle
quali non sappiamo mai emanciparci totalmente.
Io, per esempio, era curioso di sapere chi
eravate, perché venivate qui tutte le mattine,
perché mi avete l'aspetto così patito; ed era
certo che voi avevate della simpatia per me, che
nutrivate la stessa curiosità a mio riguardo,
che non vi avrei fatto dispiacere porgendovi
francamente la mano come ad un amico, e non di
meno non l'ho fatto – perché? non lo so bene io
stesso, non l'ho fatto... e se non avessi preso
questo scappuccio, voi avreste aspettato ancora
chi sa quanto a prevenire la mia esitazione".
"È vero – io dissi, – ho approfittato di questo
pretesto; e anch'io non desiderava meno di
conoscervi."
"Vi sono nel nostro orgoglio delle esigenze
ridicole, e nel nostro carattere e nella nostra
natura delle leggi che si urtano, delle
prevenzioni che fanno male, io vorrei conoscere
le ragioni di questo ritegno indefinibile che
separa un uomo dall'altro, di questa barriera di
convenienze che una forza prepotente come un
istinto innalza tra creature d'una stessa
specie. Certo è difetto di società, non di
natura; è però sempre un assurdo fatale e
deplorevole. Ma... non importa – proseguii
togliendo una delle sue mani tra le mie e
troncando a mezzo le mie digressioni; – non
importa, noi ci siamo avvicinati ora ugualmente
(o tardi o tosto a ciò si doveva arrivare), e
voi potrete conoscere adesso chi sono, perché
vengo qui tutte le mattine, perché m'ho questa
faccia di malato, e tutto quell'altro poco che
vorrete sapere di me, incompensai del molto che
io voglio sapere di voi ."
"Sta bene, sta bene – diss'egli sorridendo, –
voi mi avete l'aria di chiedermi una
confessione".
"E di farvela. Vi giuro che io mi struggevo
dalla curiosità di sapere chi eravate."
"Era una curiosità scambievole."
"Me n'era avveduto; ma temo..."
"Che cosa?"
"Che i casi della mia vita non abbiano a
corrispondere all'aspettazione della vostra
curiosità."
"Saremmo pari anche in questo."
"Dunque!"
"Sarebbe a dire! Esigete senz'altro una
confessione generale, una confidenza completa,
scambievole, senza restrizioni?"
"Senza restrizioni."
"Ma noi non ci conosciamo ancora... badiamo... E
se dopo..."
"Eh via, che monta questo?"
"Io vi affliggerò col mio racconto."
"Ed io col mio. Vi sono delle afflizioni dolci,
delle afflizioni inevitabili. Sentiamo le vostre
avventure."
"Me lo chiedete sul serio?"
"Sul serio."
"Ma pensate... Ebbene... sì, sì, sia come
volete, incominciate voi."
"No, incominciate voi."
"Incominciate voi, ve ne prego."
"Bene incomincerò io" dissi, per troncare subito
da principio ogni piccolo motivo di dissensione.
E senza por tempo in mezzo, incominciai il mio
racconto, e gli narrai per filo e per segno
tutte le piccole traversie della mia vita,
colorandole come sapevo meglio, e chiudendo col
dirgli che la passione innata dell'arte e una
passione d'amore sventuratissima mi avevano
tratto al partito di camparmi a stento la vita
colle lettere. Io non rinnoverò qui questo
racconto, che mi sarebbe un compito penoso e non
avrebbe a che fare cogli avvenimenti che sto per
esporre; ma fu una narrazione lunga e
commovente, e la feci a lui con tutto il fuoco,
con tutta l'espansione d'animo di cui mi sentiva
capace. Esponeva sventure mie e sventure vere;
era forse la prima volta che io raccontava una
storia reale, il dolore mi armava lo stile delle
sue punte, e mi riempiva la voce dei suoi
singhiozzi e gli occhi delle sue lacrime.
Eugenio mi aveva ascoltato in un raccoglimento
profondo e affannoso, quel raccoglimento che
somiglia alla distrazione, ma che non è che un
grado estremo della passività sofferente e
spontanea della nostra sensitività e della
nostra intellezione.
"Voi avete sofferto assai – egli disse con
quella flessione ineffabile di suono che suol
dare la pietà alla voce umana, – ma v'è ciò di
diverso in noi, che voi siete al termine del
vostro cammino ed io al principio, voi avete
sofferto ed io soffro. Dubito se apprezzerete
nel loro giusto valore le cause delle mie
sofferenze. Alcuna di esse, la più tremenda, vi
apparirà forse la più meschina e la più
puerile... no, non potrete credere agli effetti
terribili di una causa apparentemente sì lieve.
Ma non importa. Giacché vi siete dato al
mestiere delle lettere – aggiunse contraendo le
labbra ad un sorriso violento, – vi fornirò il
soggetto di un racconto abbastanza curioso,
l'occasione di uno studio analitico che darà una
diversione piacevole all'ordine monotono delle
vostre idee. I rapporti della patologia animale
colla clinica psicologica non furono ancora
investigati, o lo furono superficialmente. Voi
afferrerete in me il segreto di un fenomeno
strano, di un fenomeno spaventoso. Lo studierete
e lo scriverete. Io non tarderò a fornirvi
l'argomento dell'ultima pagina, perché io morrò
assai presto, o, dirò meglio, la parte di me che
è ancor viva morirà presto. Non vi dispiace
accompagnarmi fino alla mia dimora, e
trattenervi qualche istante nella mia casa? La
vostra visita mi risparmierebbe una parte del
mio racconto, e la fatica di molti dettagli
dolorosi."
"Andiamo" io dissi offrendogli il mio braccio,
coll'animo compreso da uno strano sbigottimento.
E per la prima volta dacché lo vedeva, osservai
che il suo volto era estremamente pallido, e la
sua persona assai dimagrita. La bianchezza del
suo viso, cui la brezza del mattino e
l'agitazione derivata dal moto davano spesso una
tinta rosea un poco vivace, avevano potuto
trarmi in inganno, ma non tardai ad avvedermi
che la sua salute era affranta, e che sotto
quell'apparenza di benessere si nascondeva il
germe d'una consunzione lenta e mortale.
Giungemmo in breve alla sua abitazione – due
camere solitarie in un quartiere remoto della
città; – egli vi viveva solo, né da quanto seppi
dipoi aveva avuto rapporti di intimità o
relazioni d'altro genere col vicinato. Il primo
oggetto che colpì vivamente la mia attenzione,
appena entrato nella sua stanza, fu una
cassettina di legno nero a vetrate, una specie
di campana nella quale eravi una gamba scarnata
e disseccata, col piede, lo stinco a metà del
femore, il quale, un poco al di sopra del
ginocchio, appariva essere stato rotto e
scheggiato. Mi fu facile indovinare che erano le
ossa della gamba amputata al mio amico;
nondimeno gli chiesi per assicurarmene: "Questa
è la vostra gamba?".
"Sì – disse egli tristemente, – è la gamba che
mi apparteneva, e che ora – aggiunse sorridendo
d'un sorriso assai mesto – mi appartiene, benché
nel modo singolare che voi vedete."
"E, non vi dà pena il vederla?"
"È ciò che sentirete ora da me, ciò che vi dirò
al termine del mio racconto. Voi vedete qui il
segreto delle mie afflizioni. Quella parte di me
che è morta, che si è distaccata dalla mia vita,
mi chiama, mi vuole, mi domanda l'altra parte
che vive: io appartengo alla morte ed alla vita
in un tempo, la mia esistenza è incompleta del
pari che il mio nulla, né io posso riempire il
vuoto della vita; quello della morte lo posso...
credete voi che io debba esitare a farlo?
"Non vi parlerò della mia infanzia; la è
un'epoca dell'esistenza sì arida che io non so
come gli uomini possano rimpiangerla. Io non ho
vissuto che da quattro anni, la vita incomincia
coll'amore, come quella che ne è una creazione,
un effetto: fuori di esso l'esistenza è un
periodo di giorni senza nome, senza scopo, senza
sensazioni. Io appartengo ad una famiglia
veneta: ho abbandonato la mia casa verso i
quattordici anni per sfuggire alla coscrizione
austriaca, e completare i miei studi di disegno
in questa città. Vi ho vissuto solo non ostante
l'età giovanissima in cui vi sono venuto; e
forse fu questa abitudine di isolamento, questa
mancanza di affetti, questa aridità forzata di
cuore che mi rese soggetto ad una ipocondria
inguaribile, ad una malinconia tetra e mortale.
Vi spiegherei difficilmente tutte le fasi di
questa malattia che si è fatta natura, e di cui
sento che non guarirò più che morendo. Sarebbe
inutile il parlarvene; tutte le sensazioni che
non hanno una causa apparente non possono essere
comprese che da coloro che le subiscono: i
fenomeni di questa infermità di animo sono sì
svariati e sì numerosi che ogni uomo ne presenta
un numero sempre nuovo e sempre inosservato. Io
fui triste, io sono ineffabilmente triste, ecco
ciò che posso dirvi soltanto. Verso i sedici
anni mi legai d'amicizia con certo Lorenzo D.
che s'era allora addottorato in chirurgia, e mi
abbandonai a questo nuovo sentimento con tutto
il trasporto, con tutta l'effusione di un cuore
che non aveva ancora amato alcuno, ma la cui
affettività era esuberante ed opprimente.
Lorenzo ed io segnavamo i due punti estremi di
una linea, i due lati opposti dell'indole umana.
Il suo carattere vivace, lieto, incurevole,
insensibile a qualunque dolore di cuore, formava
un contrasto mostruoso col mio, un contrasto nel
quale egli diceva piacevolmente potersi
rinvenire le ragioni della nostra amicizia. Non
che egli non avesse cuore, o lo avesse cattivo,
ma sapeva dirigerne e moderarne le sensazioni:
accettava un affanno come avrebbe accettato una
gioia, sorridendo; e io credo che in fondo in
fondo la disparità delle nostre nature non si
riducesse che ad una questione di apparenze: io
subiva un dolore senza nasconderlo, egli lo
subiva senza lasciarlo apparire; tutta la
differenza stava in ciò, che egli non soggiaceva
che a dolori reali ed erano pochi, io a dolori
immaginari ed erano grandi ed infiniti. Non
dubito che lo conosciate, o che abbiate per lo
meno sentito parlare di lui: la piacevolezza del
suo carattere lo ha circondato di amici d'ogni
genere, e gli ha creato una specie di
reputazione che le sue spensieratezze non gli
rendono difficile di conservare. In questo caso
voi comprenderete più agevolmente le ragioni di
ciò che sto per raccontare; egli è tal natura
d'uomo di cui io potrei parlarvi assai
lungamente senza mettervi in grado di formarvene
un concetto preciso; sarà sufficiente che
avvertiate una cosa, ed è che in mezzo alle sue
follie, ai suoi piaceri, alle sue dissipazioni,
egli è buono, nobile, onesto, eccezionalmente
onesto, ciò che vi spiegherà forse fra poco
tutte le anomalie del suo contegno a mio
riguardo. Il primo attestato di amicizia che
ricevetti da lui fu la confidenza di un suo
amore per una certa fanciulla che aveva
conosciuta in quei primi giorni della nostra
relazione; e questa confidenza mi fu fatta con
tanto fuoco, con tanta espansione, con tanta
ricchezza di particolari che non tardai a
formarmi il concetto più lusinghiero del suo
cuore e della stima che io aveva saputo
inspirargli. Si aggiunse a queste prove il
desiderio che egli mi manifestò di farmela
conoscere, l'insistenza che oppose al mio
rifiuto, il pretesto che egli addusse di voler
porre quella fanciulla tra noi come interprete,
come mediatrice, come legame tra le nostre
anime, per modo che quando io cedetti a questa
sua volontà, me gli sentiva già legato da un
affetto prepotente, da un'amicizia profonda e
indissolubile. Fui presentato a Clemenza (tale
era il nome della fanciulla), non già in sua
casa, né in presenza della sua famiglia, ma da
soli a soli, nella stanza di una sua cugina,
dove ella veniva di furto ad abbracciare il mio
amico. È impossibile dirvi l'imbarazzo in cui mi
pose quella presentazione: Lorenzo volle che io
le stringessi lì subito la mano, che la
considerassi da quel dì innanzi come una sorella
mia, come la sposa del mio amico; e mi lasciò
solo con lei, e non passò a riprendermi che dopo
qualche ora.
"La fede che Lorenzo aveva riposta in me, la sua
stima, il suo affetto, mi commovevano nel più
profondo dell'anima, mi legavano a lui di
un'amicizia sempre più viva. E per altro lato
quello spettacolo di felicità, quella dolce
immagine della loro affezione mi inteneriva
profondamente, mi traeva a pensare con dolore a
me stesso, all'aridità del mio passato,
all'isolamento terribile a cui mi avevano
condannato la mia tristezza e i miei casi.
"Clemenza aveva sedici anni (era bellissima),
uscita poc'anzi dal collegio, era ancora affatto
inesperta di quegli artifici, di quelle
convenzioni di società che avvizziscono sì
presto il cuore della donna, e spesso lo
trasformano, lo incitano, ne uccidono i
sentimenti più delicati e più nobili. Essa amava
Lorenzo come avrebbe amato una sua amica di
collegio, lo amava per divertirsi, per
scherzare, spassarsi un poco con lui, lo amava
perché era allegro, perché era giovine, perché
era bello; gli voleva bene come vogliono bene i
fanciulli, con schiettezza, con lealtà, ma senza
intensità e senza ardore.
"Se Lorenzo le avesse detto: "Fuggiamo,
abbandona la tua casa, ti voglio rapire", essa
non avrebbe esitato un istante a seguirlo. La
novità, la vaghezza di quell'avvenimento ve
l'avrebbero indotta senza indugiare. Tale è il
giudizio che io mi sono formato di lei in questi
ultimi anni, non allora, ché era troppo
inesperto del cuore umano e del suo; allora io
lo aveva giudicato un affetto saldo e profondo,
e forse la mia inesperienza non mi aveva tratto
in inganno, poiché l'amore subisce le fasi
dell'età, né in quell'epoca poteva essere
diverso; bastava che egli contenesse i germi di
un amore vero, che possedesse la forza di
resistere al tempo, di seguirlo, di tramutarsi
con lui, come ha fatto, in un affetto
coscienzioso e durevole.
"Mi ricordo ancora che nella sera di quel giorno
io fui tristissimo, mi coricai assai presto, e
pensando alla felicità del mio amico versai
delle lacrime amare sull'acerbità inesorabile
del mio destino. Clemenza ed io continuammo a
vederci, stringemmo da quel giorno una relazione
che non era intensa come l'amore, ma intima
quanto l'amicizia: Lorenzo non si dava pensiero
alcuno di noi, gioiva in vederci legati
d'affetto, stringeva egli stesso in mille guise
questi legami che ci tenevano uniti. In mezzo
alle sue follie, alle sue spensieratezze senza
fine, il suo cuore perdurava sì nobile, sì
leale, e soprattutto sì ingenuo, che egli non
aveva pur sospettata la possibilità di rapporti
meno innocenti tra la sua amante e il suo amico,
né io stesso, a dire il vero, aveva sospettata
tale possibilità; io fui sorpreso dall'amore
prima di poterlo avvertire, ne fui vinto prima
di poterlo combattere. Era così che l'amore
iniziava le sue battaglie, si procurava le sue
vittorie! Con quelle sorprese, con quelle
apparenze di virtù, con quelle simulazioni
infinite? Io lo compresi troppo tardi, io mi
sentii posseduto da questo sentimento non a
gradi, ma ad un tratto, non in modo da poterlo
vincere ancora, ma da esserne già vinto, da
esserne dominato per sempre.
In coloro che amano una volta sola, è l'amore
che dirige la volontà, in coloro che amano più
di una volta è la volontà che dirige l'amore. La
fortuna, come in tutte le altre cose della mia
vita, venne a frapporsi fra me e il mio cuore.
Una fatalità inesplicabile mi condannava
all'ingratitudine più nera e più mostruosa.
Erano trascorsi pochi giorni dacché io aveva
conosciuta Clemenza, quando la sua famiglia,
assentatasi per alcuni mesi da questa città,
lasciavala qui affidata a sua cugina, e
contemporaneamente Lorenzo si ammalava, né
poteva riceverla in sua casa. Clemenza ed io ci
trovammo forzatamente soli.
"Incominciarono le mie esitanze. Io non poteva
sfuggirla, non poteva allontanarmi da lei senza
tradire il mio segreto; ed ella mi volea seco
assai spesso quasi ignorasse la mia passione, o,
non ignorandola, intendesse di secondarla. Dal
letto del mio amico a lei; da lei al letto del
mio amico: io trascorreva così le mie giornate
angosciose a un tempo e felici; se mi tratteneva
al fianco di Clemenza, l'amicizia mi chiamava al
capezzale del suo amante; se mi tratteneva
presso di lui, l'amore mi richiamava ancora a
Clemenza: viveva diviso tra questi due
sentimenti, confortato dalla nobiltà dell'uno,
lacerato dall'ingratitudine dell'altro;
esitante, dubbioso, impotente sì ad essere un
amico leale, come un amante leale; torturato
dalle lotte incessanti della mia coscienza.
"Noi uscivamo spesso alla sera, e solevamo
passeggiare sotto gli alberi del recinto ove ci
siamo ora conosciuti; la cugina di Clemenza,
vedova e giovane ancora, aveva un amante che
incontrava sovente durante quelle nostre
passeggiate, e al quale soleva dare volentieri
il suo braccio, e col quale amava ancora più
volentieri di perdersi nei meandri intricati del
giardino. Così io rimaneva solo colla fanciulla.
"Fu in quelle sere e in quella solitudine e
durante la malattia di Lorenzo che i nostri
cuori si apersero, che io ingannai il più nobile
degli amici, ella il più affettuoso degli
amanti; che entrambi ci preparammo amarezze
senza fine e senza rimedio. Io non potrei mai
dirvi tutta l'intensità di queste amarezze,
tutta la varietà de' miei tormenti. Nello stesso
istante che il mio cuore si apriva per la prima
volta all'amore e ne accoglieva l'immagine
ancora pia, ancora pura, ancora circondata di
tutte le sue illusioni celesti, sentivasi
oppresso, dilaniato dalla coscienza della sua
ingratitudine. E a ciò si aggiungeva la gelosia
che io sentiva di Lorenzo, il pensiero che
quella fanciulla lo aveva amato, lo amava
ancora, né sapeva risolversi a rinunciarvi; e
che quando pure vi si fosse risolta, né io avrei
potuto permettere che lo facesse, né ella
avrebbe avuto la forza di farlo.
"Perché Clemenza amavaci entrambi ad un'ora;
sentivasi in cuore tanto affetto per dividerlo
tra noi, e bastare al debito che aveva contratto
verso ciascuno. Appena ella aveva la coscienza
del suo fallo, ne intravedeva appena le
conseguenze inevitabili.
"Mistero singolare del cuore umano! Ella aveva
amato Lorenzo per l'indole spensierata e vivace
del suo carattere, aveva amato me per la natura
opposta del mio. La gioventù, la bellezza, il
piacere, l'avevano attratta verso di lui, la
pietà, la sofferenza, il dolore, l'avevano a me
legata; essa afferrava in entrambi gli elementi
di cui costituire una sola individualità, una
individualità perfetta: completava uno coll'altro;
amavaci ambedue in uno solo, e amava uno solo in
ciascuno di noi.
"Indarno io tentava di richiamarla al pensiero
dei suoi doveri, dei nostri doveri; ella
rifuggiva da un esame del suo cuore, da una
minuta analisi dei suoi sentimenti; come la
maggior parte delle donne obbediva ai propri
istinti senza riflettervi, seguiva le proprie
inclinazioni senza dirigerle; non si formava la
vita, la subiva; né sapeva tampoco di subirla,
trovavala dolce e bastevole.
"Tale è la donna. Non considera, non intuisce,
non giudica mai sé medesima; ciò che fa le par
buono, ciò a cui la spinge l'istinto le appare
sempre giustificato.
"Molte sono oneste perché la natura non le
spinse ad essere diverse; molte, le più, non lo
sono, perché la natura non volle che lo fossero,
perché giudicarono un poco tedioso l'esserlo.
L'osservazione non ammette in ciò cause più
serie. Non importa come e chi esse amino: esse
si danno al primo amore, come si danno
all'ultimo, come si sono date talora a quelli di
mezzo, con espansione, con verità, con abbandono
intero e generoso; ciò che esse vogliono
soltanto è di essere amate, e di esserlo sempre.
"Io non vi racconterò tutte le fasi, le
impressioni di questo amore: dovrei richiamarmi
delle memorie troppo affannose, né giungerei a
farvi comprendere con quanta profondità io
l'abbia sentito, e con quanta amarezza di
sacrificii scontato. Più volte, durante la
malattia di Lorenzo, io era stato in procinto di
gettarmi ai piedi del mio amico, di raccontargli
tutto, di implorare la sua pietà e il suo
perdono, di fuggire, di sottrarmi per sempre
alla sua vista e a me stesso. Ma il pensiero del
suo dolore, il pericolo di aggravarne la
malattia, la vergogna che io sentiva di me
medesimo mi distoglievano da questo progetto. E
Clemenza pure vi si opponeva. "Perché dirglielo
– mi diceva ella, – perché affliggerlo! È ella
questa gran colpa l'amarti? Non ti ama egli
stesso, Lorenzo? Io ti voglio bene, perché tu
hai sofferto, perché soffri, perché sei docile e
buono; perché non hai al mondo altra persona che
ti ami. Lorenzo non può rimproverarmi l'amore
che io ho per te; può soffrirne, ma non può
rimproverarmene. Io non sarò tua, ma non sarò
nemmeno di lui, vi amerò entrambi, apparterrò
tutta a voi, ma non sarò di nessuno."
"Che risolvere! Tacqui e simulai lungo tempo.
Lorenzo guarì. La sua lieta natura, che non si
era pur smentita durante gli eccessi del male,
tornò ad arriderci, ad allietarci colle sue
festevolezze, a spensierirci colle sue gioie.
Più io mi rodeva in segreto della mia colpa, più
egli mi amava. Clemenza non nascondeva il suo
affetto per me, pareva non arrossirne, sembrava
non temere che Lorenzo l'indovinasse.
"E Lorenzo mostravasene lieto.
"Credeva egli all'innocenza di questo amore, o
non credendovi, voleva punirmene coll'ingigantire
nella mia coscienza l'idea della mia
ingratitudine? È ciò che nondimeno aveva
sospettato. E in questo sospetto il mio cuore
trovò le ragioni di inasprirsi verso di lui. La
sua dolcezza mi faceva male, la sua clemenza mi
uccideva; avrei voluto che egli mi avesse
odiato, che mi avesse disprezzato, punito; la
sua generosità diveniami una tortura alla quale
non mi sentiva più la forza di reggere. Vi farò
questa terribile confessione? Sentii che
incominciava ad odiarlo, compresi che non poteva
più trovarmi dinanzi a lui senza fremere. Quell'uomo
mi contendeva l'unico affetto della mia vita, mi
contendeva la mia felicità. Con quale diritto!
Il mio cuore non tardò a sollevarsi contro di
lui; e benché non mi sentissi deliberato ad una
provocazione che spezzasse per sempre i nostri
legami, la mia ingiustizia mi suggerì un
divisamento che non era meno crudele e meno
colpevole. Io amava disperatamente Clemenza, io
non poteva più vivere senza di lei e presso di
lei. Con lei e senza lei: tale era la mia
situazione. Poteva io prolungarla, tollerarla,
resistervi! Ella non voleva rinunciare a Lorenzo
per me, non sentivasi la forza di rinunciare a
me per Lorenzo, oscillava tra un affetto e
l'altro, mi lacerava il cuore colle sue lacrime,
colle sue tenerezze, colle sue preghiere; mi
rendeva desolato co' suoi rifiuti, colle sue
esitazioni, coll'immagine dei doveri che la
legavano al mio amico, e che mi ricordava ad
ogni istante senza pietà, e a un tempo senza
rimorso.
"Risolsi di partire, di fuggirli entrambi, di
gettarmi nel turbine della società, di obbliarmi
e di obbliarli tra gente straniera, e in un
mondo nuovo e ignorato. Scelsi per il mio ritiro
la Francia, e mi allontanai da questa città
prima che Clemenza e Lorenzo avessero sospettato
il mio disegno, e avessero avuto tempo a
prevenirlo. Accasatomi a Parigi, diressi a
Lorenzo una lettera nella quale gli confessava
il mio amore, i miei patimenti, le mie
sofferenze senza numero; e lo accusava di
avermene punito nascondendomi il suo
risentimento, e di avermi reso infelice per
sempre. Io non dissimulava a me stesso
l'ingiustizia di quelle accuse, e l'asprezza e
la severità delle mie parole. Nondimeno le
scrissi.
"Ebbi da Lorenzo questa risposta:
"La vostra lettera, la vostra fuga, la
confidenza che mi fate del vostro amore mi hanno
sorpreso e atterrito. Devo far appello a tutto
il mio coraggio per non soccombere sotto il peso
d'una sventura sì grande. Io ho perduto a un
tratto quanto aveva al mondo di caro, voi,
Clemenza, il mio amore, la mia fede illimitata e
incorrotta. Comprenderete quanto io debba
soffrire di questa perdita. Nondimeno la mia
ragione non si smarrisce, né il mio cuore si
muta, né io posso concedere alla sventura il
diritto di rendermi malvagio. Perché fuggire?
Perché non dirmi tutto qui? Perché usare verso
di me un linguaggio che mi ha fatto sì male? Ah
voi siete ben debole se la sventura può rendervi
così ingiusto! Tornate, Lorenzo; le persone che
avete offeso vi perdoneranno; faranno di più,
imploreranno ancora la vostra amicizia. Clemenza
non apparterrà che a voi, io mi varrò di tutta
la mia influenza sul di lei animo per fare che
ella mi dimentichi, che non sia che vostra, che
non sia felice che con Eugenio. Son io che
doveva fuggire, che doveva accorgermi della
vostra passione, e prevenirvi; son io che doveva
sacrificarmi per voi, per voi che siete sì
mesto, sì solo, sì travagliato. Ah la mia
coscienza mi opprime di tardi rimproveri!
Venite, venite, Lorenzo; o verrò io costì, verrò
ad oppormi ai vostri ingrati progetti; a
ricondurvi tra le braccia dell'amore e
dell'amicizia".
"Che vi dirò io? Fui commosso profondamente da
quella lettera, fui vinto da una generosità sì
sovrumana: cedetti alle sue istanze, e tornai.
"Io non ignorava che in quella lotta di
sacrificii appariva ed era assai meno nobile di
lui; il mio egoismo, il mio amore, l'istinto
ineluttabile della mia felicità mi rendevano
superiore a quella tacita coscienza della mia
bassezza, ma non l'attutivano, né mi
confortavano di dolcezze vere e durature.
Riacquistando l'amicizia di Lorenzo, tornandone
ad apprezzare quelle doti elette di cuore che
non poteva in alcun modo disconoscere, sentiami
torturato dal pensiero della mia ingenerosità,
della mia inferiorità morale. Ogni sacrificio di
lui mi feriva come un rimprovero, ogni parola
che vi alludesse mi richiamava dolorosamente
all'idea della mia ingratitudine. Io vedeva il
mio amico attristirsi, immalinconirsi, mutarsi;
fuggire da me, fuggire da Clemenza; nascondere
nel segreto i dolori di cui doveva essere
travagliata la sua anima. E Clemenza stessa
fuggivami: ora che ella era stata abbandonata da
lui, tenealo caro più che non l'avesse tenuto
dapprima; la sua generosità avevaglielo reso
degno di stima, quanto la facilità con cui io
aveva accettato il suo sacrificio doveva avere
immiserito nella di lei anima il concetto che si
era formata di me.
"Io vedeva ogni giorno Lorenzo; la nostra
amicizia fortificavasi di nuovi legami, benché
non potessi bandire dal mio cuore non so quale
indegna prevenzione che mi teneva in sospetto di
lui. Clemenza non amavami più come prima, e io
vedeva in questa diminuzione di affetto l'opera
consenziente e involontaria del mio amico. La
gelosia che io ne sentiva, il dispetto che
provava dalla mia stessa ingenerosità a suo
riguardo, il convincimento che egli era migliore
di me, ponevano tra i nostri cuori qualche cosa
di freddo, di amaro, di insuperabile. Non so se
Lorenzo se ne avvedesse, se partecipasse a
questa convinzione, ma io non ho riposto mai una
piena fiducia nell'anima sua: e ve lo dico
perché giudichiate voi stesso di me, perché
possiate fare un giusto apprezzamento di tutto
ciò che egli operò in seguito a mio riguardo.
"Non vi prolungherò il racconto di queste lotte,
di questi dubbi, di queste esitanze. Clemenza mi
amava ancora, ma amava del paro Lorenzo, amavalo,
benché egli non l'avesse più riveduta dopo il
mio ritorno; rifiutavasi a contrarre un legame
duraturo con me.
"Io caddi allora in una malinconia inguaribile;
i germi di quella infermità di cuore e di mente
che io recava meco si svilupparono,
ingigantirono, diedero frutti precoci ed amari;
la tristezza venne ad assidersi al mio
capezzale; la diffidenza venne a collocarsi tra
noi e a dividerci, nel tempo stesso che ci
sentivamo riuniti da un potere più valido della
nostra volontà, dalla forza prepotente del
destino.
"Passarono così due anni.
"Nella primavera scorsa, gli avvenimenti della
guerra vennero a togliermi da quella situazione
terribile; volli lottare di sacrificii con
Lorenzo, volli mostrarmi al paro generoso, e
d'altra parte la vita erami divenuta
insoffribile. Mi arruolai nel corpo dei
volontari per cercare in tal guisa un pretesto
di morte onorevole.
"Prevedendo gli ostacoli che il mio amico e
Clemenza avrebbero opposto a questa mia
risoluzione, mi allontanai da essi senza
abbracciarli, e ne li avvertii per lettera che
diressi loro dal campo. Quattro giorni dopo la
mia partenza, Lorenzo mi raggiungeva al
reggimento cui si era fatto aggregare nella sua
qualità di medico, e mi diceva:
"Tu tenti indarno di sfuggirmi; costringendomi
ad arruolarmi teco e ad avventurarmi agli stessi
pericoli, mi hai legato ancora più tenacemente
al tuo destino. L'affetto che io ho per te, e il
bisogno che sento di contribuire alla tua
felicità non sono un sentimento ed un'esigenza
che io possa attribuire sì presto. Io ti seguirò
dappertutto: io spero che usciremo illesi
entrambi da questi pericoli o vi soccomberemo
entrambi; ma se un solo di noi è destinato a
sopravvivere al nostro passato, io faccio voti
perché tu sia quello, perché tu possa serbare
intatta la fede nell'amicizia, e formare ancora
colla tua felicità la felicità di Clemenza".
"Lascio di raccontarvi tutte le tristi
eventualità di quella campagna, come ometto la
storia delle mie impressioni e de' miei rapporti
con Lorenzo in quell'ultimo periodo della nostra
amicizia. Per me che m'era dato al militare non
per affetto di patria, né per esigenze di un
principio, non v'era pure quel sacro entusiasmo
che ci compensa di tutto, quell'immenso conforto
che si attinge dalla coscienza di compiere un
grande dovere. Io era venuto per morirvi, non
importava il modo e lo scopo, e non ne anelava
che l'istante.
"Mi trovai tra i primi al combattimento del
Caffaro: Lorenzo mi s'era posto al fianco, e
aveva fatto sacramento di non abbandonarmi,
benché io l'avessi scongiurato piangendo a
ristarsi. Mi scagliai tra i più arditi nel
grosso della mischia: gli istinti della vita e
della difesa, ridestatisi malgrado la mia
determinazione di farmi uccidere, avevano
prodotto in me quella febbre, quell'acciecamento,
quell'esaltazione di animo che non ci lascia
campo ad altre idee, e restringe tutta la nostra
attività morale nel pensiero unico, fisso,
irremovibile della nostra conservazione.
Dimenticai il mio amico che combatteva al mio
fianco; né erano trascorsi dieci minuti dacché
aveva avuto principio il combattimento, che mi
sentii colpito la gamba sinistra; e avendo
tentato di sorreggermi e di avanzarmi verso il
nemico, la gamba spezzata mi si curvò verso la
metà del femore, provai un dolore acuto,
straziante, vacillai e caddi svenuto.
"Rinvenni alle ambulanze. Lorenzo seduto a terra
presso alcuni manipoli di paglia su cui io era
stato adagiato, discuteva con altri medici sulla
necessità dell'amputazione. Io era sì sofferente
che poteva comprendere a stento le loro parole,
nondimeno intesi che essi ammettevano la
possibilità della mia guarigione senza la
perdita della gamba, mentre il mio amico solo
sosteneva calorosamente la necessità di
amputarla sull'istante. Non so perché, ma mi
pareva che Lorenzo mostrasse in ciò
un'ostinazione cagionata da motivi estranei a
quelli di conservare la mia vita. Era un
semplice quesito di scienza? Era l'effetto di un
convincimento sincero? Allora non mi parve tale,
né poi, né adesso; benché la debolezza
cagionatami dal dolore, e l'insistenza e le
lacrime con cui mi scongiurava di subire
l'amputazione, mi vi facessero acconsentire.
"Fu il giorno più terribile della mia vita.
L'immaginazione umana non può giungere a
concepire che cosa sia l'amputazione di una
gamba, questa orrenda mutilazione della nostra
macchina, questo impicciolimento, questa
modificazione, questa morte parziale del nostro
essere fisico. È impossibile che voi possiate
comprendere i rapporti che questo avvenimento
stabilisce col nostro spirito, che possiate
farvi un'idea delle sensazioni che proviamo
allorché quella parte viene a distaccarsi da
noi, del disequilibrio, dell'incompletazione che
ne deriva.
"Io non vi farò una descrizione di questa
orribile operazione chirurgica, né potrò
parlarvi come vorrei delle sensazioni che vi ho
provato. Certo è però che quando l'ultima fibra
fu recisa e la gamba completamente distaccata,
io sentii che non apparteneva più alla vita che
per metà, che tutto in me si era mutilato,
sconvolto, immiserito; che io sarei rimasto nel
mondo come una parte minima, come il frammento
infinitesimale di un essere; che vi sarebbe
sempre stata una metà di me che, già perdutasi
nel gran nulla, mi vi avrebbe chiamato ad ogni
istante, come avesse voluto precedermi.
"Non era il dolore fisico che mi opprimeva in
quel momento, non il dolore morale: era una
sensazione nuova, orrenda, profonda,
inesplicabile. Credo che tutti coloro che
subirono una tale mutilazione abbiano sentito
per metà che cosa è il morire, ne abbiano
indovinato per una parte il segreto.
"La gamba amputata giaceva lì presso di me, sul
terreno; un istante prima aveva appartenuto a
me, era mia, formava parte del mio essere, io ne
dirigeva le movenze; la mia volontà le imponeva;
la mia mano la toccava, ed essa rispondeva a
quel contatto; sentiva piacere, dolore,
soddisfazione, stanchezza... ora tutto era
finito: essa si era sottratta al dominio della
mia volontà, era uscita dal cerchio della mia
esistenza. Io viveva ancora, io respirava,
pensava, formava progetti per un tempo avvenire;
essa era morta, fredda, bianca, immobile; e pure
pochi istanti prima lei ed io avevamo formato un
essere solo. Mi sentiva collocato sul limitare
della morte, ed era vivo, mi sentiva attratto
verso la vita, ed una parte di me era morta, era
una sensazione tremenda e ineffabile... Volli
toccarla, sollevarla colle mie mani... Quale
orrore! La sentiva pesante, fredda, molle,
morta, soprattutto morta. Quante parti, quanti
dettagli che non aveva osservato prima mi
apparivano allora visibili; quante rughe, quante
pieghe, quanti effetti di nervi e di muscoli!
Toccai un tendine e vidi rizzarsi il pollice del
piede... Gran Dio! La gettai da me con orrore; e
subito mi curvai su di lei per istinto, quasi mi
appartenesse ancora, quasi avesse potuto ancora
soffrire. Mi posi a singhiozzare ed a piangere.
"Ecco ora qua la mia gamba... voi la vedete, voi
potete ammirare sotto i cristalli di quella
cassetta una parte considerevole del mio
scheletro. Quale sarebbe la vostra impressione
se quello stinco bianco, lucido, freddo
appartenesse a voi? Immaginate l'impressione che
quella vista può cagionare sopra uno spirito
infermo come il mio. Perché mirando quello
stinco io ricostituisco tutto il mio scheletro,
io lo vedo intero, io lo vedo in tutta la sua
orribilità, in tutte le sue minime parti: la mia
immaginazione dà al mio corpo la trasparenza di
quel cristallo. E poi quella porzione di me che
è venuta a morire, che io ho distaccato
violentemente dal suo gran centro di vitalità,
reclama le altre parti, le vuole, esige che si
confondano con lei nel suo nulla. Ed io non
posso separarmi, allontanarmi, divellermi da
questa parte di me: se ne sto lontano un giorno,
sento che vi è qualche cosa che mi ridomanda;
sento che non tutto ciò che è mio è con me: se
le sto d'appresso le sue esigenze diventano
maggiori, l'influenza che esercita sul mio animo
più imperiosa e crudele. È tempo che io mi
sottragga a questa tortura – o vivere
completamente, o morire completamente – ecco il
dilemma terribile che io leggo scritto su questo
frammento spaventoso del mio scheletro.
"E avesse egli ucciso soltanto la mia vita
fisica sarebbe nulla, ma è la mia fede che egli
ha ucciso, la fede che io aveva nell'amicizia.
Sì, Lorenzo mi ha tradito; egli mi ha mutilato
così perché Clemenza non potesse più amarmi,
perché non potesse esser mia. Ho fatto
analizzare la mia gamba da medici celebri, e
hanno dichiarato che l'osso non era sì
fratturato da non potersi ricongiungere, che io
avrei potuto guarire senza amputazione. Gli
stessi consigli ripetutigli già con tanta
unanimità dai chirurghi dell'ambulanza mi
confermarono su questo odioso convincimento.
"Ed ecco, vedete – egli aggiunse sollevandosi e
aprendo un'imposta della cassetta, – guardate
qui ove la palla aveva colpito, non vi era che
una frattura, non vi erano schegge, le parti del
femore si sarebbero ricongiunte senza
difficoltà."
"Non parmi" io dissi, tanto per confortarlo come
potevo meglio, e distogliere la sua mente da
quella fede.
Egli crollò il capo in atto di dubbio, e
soggiunse:
"E' impossibile; io non posso credere
all'innocenza di Lorenzo, per quanto egli abbia
tentato e tenti ancora di distruggere in me
questa convinzione. Vi sono dei momenti in cui
il dolore me lo presenta sotto un aspetto sì
odioso, che anche avvedendomi, come vorrei, del
mio inganno, non potrei più mettermi in pace con
esso... Sì, il dolore mi renderà forse ingiusto,
ma è lui, sono le sue mani, quei suoi ordigni
terribili che mi hanno mutilato così, che hanno
distaccato dal mio essere questa parte
miserevole di me che mi attende".
"Ciò è certamente esagerato – io dissi; – se
egli aveva in animo di rendervi in tal modo un
servigio, non dovete serbargli rancore dei mezzi
con cui lo doveva fare. Ma il suo contegno dopo
quell'avvenimento non vi ha potuto accertare o
distogliere dal vostro sospetto? Clemenza vi ha
abbandonato? L'ha egli sposata?"
"No – diss'egli, – tutt'altro. Clemenza, pel
contrario, mi ama, ed egli la fugge, ed insiste
perché, superando la ripugnanza che io debbo
inspirarle, acconsenta a divenire mia moglie."
"Dunque?"
"Ma chi mi assicura che il suo pentimento non lo
ecciti a questo sacrificio? E quando pure egli
ne fosse pentito, posso io perdonargli questo
assassinio parziale di me? In quanto a Clemenza,
non dubito che solo un sentimento di
commiserazione la spinga a desiderare la mia
mano, né io posso essere così vile per accettare
questo sacrificio."
"Dio buono! – io dissi. – Voi siete
terribilmente sospettoso, voi vedete forse
dell'odio dove non ve n'è ombra, dove non vi è
che della virtù e dell'abnegazione. I vostri
rapporti con Lorenzo sono dunque cessati!"
"Cessati."
"È a deplorarsi. Ma io tenterò di rinnovarli –
proseguii stringendo le sue mani nelle mie; – io
tenterò vostro malgrado, perché anch'io desidero
la vostra felicità, come la desidera forse
profondamente e sinceramente Lorenzo. Io lo
conosco il vostro amico, gli parlerò di voi,
tenterò di assicurarmi dei sentimenti che nutre
a vostro riguardo. Vedrete che vi eravate
ingannato, che la vostra bontà fu traviata dalla
vostra debolezza. Mi permettete di farlo? Di
interessarmi alla vostra felicità?"
"Fate, fate" diss'egli sorridendo tristamente.
"E incominciate – ripresi accennando alla
cassetta – coll'allontanare da voi questo motivo
di dolori, questa causa di considerazioni
continue sul vostro stato. Bandite coteste
malinconie che non hanno ragione di essere. Fate
in modo..." Ma Eugenio m'interruppe vivamente
esclamando:
"È impossibile, impossibile! Ne andrebbe la
vita; credete voi che le cose che vi ho detto
poc'anzi, ve l'abbia dette per giuoco! Credete
che l'influenza che esercita su di me questa
frazione di me stesso non sia assoluta,
tirannica, inesorabile, come vi ho manifestato?
No, io non potrei vivere un'ora diviso da lei,
la sola certezza di non vederla più sarebbe
sufficiente ad uccidermi, quantunque comprenda
che se potessi allontanarmene potrei
riconciliarmi ancora colla vita".
"Sia come volete, ve ne farete ragione più
tardi; e, se me lo permettete, vi rivedrò
domani, e riparleremo di voi, e procureremo di
essere buoni amici."
"Volentieri, volentieri – diss'egli richiudendo
l'imposta della cassetta senza levarne lo
sguardo ed abbracciandomi con effusione. – Ci
rivedremo domani al giardino."
"Al giardino."
E ci lasciammo coll'ansietà di rivederci.
Io non aveva mentito asserendo di conoscere
Lorenzo. Benché i rapporti amichevoli che
esistevano tra noi non avessero alcun carattere
d'intimità, vi era da una parte e dall'altra una
tacita simpatia che le sole circostanze non ci
avevano ancora messo in grado di provarci. Il
suo carattere lieto, vivace, incurevole, gli
aveva procurata l'affezione di quanti lo
conobbero, il suo cuore sincero e generoso
gliene aveva guadagnata la stima. Io l'aveva
osservato da qualche tempo – e l'avevano
osservato meco i suoi amici – che la sua indole
si era modificata, la sua allegrezza svanita, la
sua spensieratezza frenata: egli frequentava
assai raramente quei luoghi di convegno ove un
tempo soleva mostrarsi ogni giorno; e spesso
trascorrevano intere settimane senza che lo si
potesse vedere. Richiesto del perché,
giustificavasi con imbarazzo: e per evitare
quelle domande e per sottrarsi alle noie degli
amici, che quel modificarsi improvviso del suo
carattere incominciava ad allontanare da lui,
aveva in quegli ultimi giorni cessato
assolutamente di frequentarli.
Il racconto di Eugenio mi aveva svelato il
segreto di questo contegno. Io non poteva però
prestar fede alle accuse che erano contenute in
questo racconto: qualunque sospetto poteva
capire in me ed acquistarvi un certo valore, non
quello che Lorenzo fosse un ipocrita, ed avesse
potuto nascondere opere e divisamenti sì tristi
sotto il manto di un'infame simulazione. Ad ogni
modo premevami di decifrare questo enigma, e la
mia premura non era l'effetto di una semplice
curiosità.
Il racconto di Eugenio, le sofferenze, le
prevenzioni, gli affetti, l'infermità fisica e
morale di questo infelice giovane avevano
destato nel mio animo la più viva simpatia per
lui, e m'avevano eccitato a giovargli. Deliberai
di parlarne a Lorenzo, e la fortuna mi fu in ciò
sì cortese che mi imbattei con lui nella sera di
quel giorno medesimo.
"È necessario – gli dissi dopo avergli stretto
la mano – che io vi parli di alcuni avvenimenti
che vi riguardano. Ho penetrato, mio malgrado,
in alcuni segreti della vostra vita intima, e
sento il dovere di avvertirvene, e la necessità
di combinarmi con voi circa i mezzi di
raggiungere la felicità di un amico comune."
"Dite, dite" interruppe Lorenzo meravigliato. Io
gli raccontai allora quanto m'era successo nel
mattino, e gli ripetei letteralmente la
narrazione che aveva ascoltata da Eugenio.
"Voi capirete – aggiunsi terminando il mio
racconto – che la vita di quel giovine non potrà
più durare gran tempo così travagliata, e che
voi dovete tentare di guarirne lo spirito con
tutti quei rimedii che l'arte vostra e più
ancora la vostra amicizia e la conoscenza più
esatta del suo carattere vi suggeriscono.
Conosco il vostro cuore: io mi unirò a voi, e vi
presterò tutti quei mezzi di cui posso disporre
per raggiungere questo scopo."
"Eugenio è un ingrato – disse Lorenzo
attristato: – vi racconterò tutto, benché non vi
sia alcuna inesattezza nella narrazione che
avete già ascoltata da lui. Vi sono degli uomini
i quali si atteggiano a vittime senza esserlo,
affettano una sensibilità che non hanno,
accusano dolori che non sentono, esigono da
coloro che soffrono e sanno soffrire con forza e
con dignità, l'omaggio d'una compassione che non
meritano. Ambiscono di essere deboli, immaginano
di essere oppressi; pretendono che li
proteggiate e li accarezziate come fanciulli,
che sacrifichiate tutto per essi; e se cessate
un istante di farlo, obbliano ciò che avete già
fatto, vi accusano di egoismo e di
ingratitudine. Sì, perché noi ridiamo, perché
nascondiamo sotto la maschera dell'apatia le
insanabili piaghe dell'anima, ci dicono che non
abbiamo cuore, pretendono che gittiamo ai loro
piedi come un trastullo il tesoro dei nostri
affetti e della nostra felicità. Freddi e
ingenerosi egoisti! Eugenio è uno di costoro. Se
v'hanno dolori nella sua vita sono quelli che
egli si è procurato colla instabilità del suo
carattere, collo scetticismo della sua anima;
sono quelli che mi rinfaccia, e che io nondimeno
ho tentato risparmiargli col sacrificio di tutto
ciò che ho avuto caro nel mondo; il resto è
fittizio, è mentito. Conoscerete Clemenza: vi
farete voi stesso un concetto dell'affezione che
quella fanciulla ha nutrito e nutre per lui,
giudicherete di me e di lei.
"Quando io conobbi Eugenio me ne sentii preso da
pietà per la sua tristezza, per l'isolamento in
cui viveva, per l'acerbità somma dei suoi casi,
mali tutti di cui egli aggravava l'intensità,
senz'arte forse, ma nondimeno l'aggravava. La
pietà mi condusse all'amore. Immaginai di porlo
al fianco di Clemenza, perché l'affetto e le
cure di una donna non ne lasciassero inaridire
lo spirito che io vedeva già isterilirsi in lui
miseramente. Questa confidenza che io mostrava
di riporre nella sua amicizia, questa stima in
cui gli provava di avere il suo cuore, dovevano
sollevarne e fortificarne la fede, riconciliarlo
un poco cogli uomini dai quali si era diviso
senza motivi. Queste sole ragioni mi avevano
indotto a renderlo partecipe dei segreti e della
felicità della mia vita. Per lui che non aveva
mai amato, la sola presenza di una donna, la
sola fiducia nell'amicizia, il solo spettacolo
della nostra felicità dovevano essere
sufficienti ad aprire, a dilatare, a migliorare
il suo cuore, a schiudergli nuovi orizzonti, a
presentargli la vita sotto il suo aspetto reale:
una lotta accettata con coraggio, ricca di
trionfi e di beni. Iddio mi è testimonio se non
erano tali i sentimenti che mi avevano mosso a
ciò fare: egli li ha disconosciuti.
"Previdi più tardi le conseguenze possibili di
questo avvicinamento tra lui e Clemenza; il
fatto non tardò ad accertarmi della giustezza
delle mie previsioni. Non vi dirò se io ne
soffersi – ne giudicherete se avete amato – non
vi farò pompa nemmeno di una virtù che forse non
era che un dovere; una sola cosa vi dirò, ed è
che io mi rassegnai alla perdita di quell'affetto,
e ne cercai un compenso nella coscienza del mio
sacrificio, e nel pensiero di aver contribuito
alla felicità di Eugenio, anzi di averla
formata. Il mio cuore rifugge dal dirvi il
prezzo di quel sacrificio.
"Voi
sapete già come ne fui retribuito. Divenni un
ostacolo alla loro felicità; anche la mia sola
amicizia, il mio solo passato parevano innalzare
una barriera troppo grande tra i loro destini;
non vi era più posto per me nei loro cuori, non
vi era nemmeno tra i loro cuori: Eugenio prese
ad odiarmi – lo taceva, ma lasciavalo apparire
tacendo – vinto dalla mia dolcezza, atterrito
dall'immagine gigante della sua ingratitudine,
si allontanò da me e da lei, si rifuggì in
Francia; e di là accusò me della sua fuga e del
suo dolore, e chiamò responsabile la mia
coscienza della sua sventura.
"Avrei potuto un'altra volta ricostruire
l'edificio della mia felicità, ripossedere il
cuore di Clemenza, il cui amore per lui non era
stato mai, come il mio, che una manifestazione
affettuosa della pietà; non lo feci.
"Fui
ricompensato colla ingratitudine più triste, più
inqualificabile. Fui accusato di averlo mutilato
senza necessità, di avere attentato alla sua
vita, di avere mentito sempre l'interessamento
appassionato e sincero che aveva sentito per
lui. Furono chiamati chirurghi distinti, o
reputati distinti, ad avvalorare col loro
giudizio l'infame sospetto di Eugenio – giudizio
impossibile a formularsi sul semplice esame
dell'osso, ma che nondimeno – e ne ho ignorato
sempre il motivo, forse per gelosia d'arte – fu
espresso in modo conforme alle sue previsioni.
Dinanzi a queste accuse terribili io non poteva
più dimostrargli una benevolenza che aveva
cessato di sentire, non poteva più far appello
alla mia longanimità esausta da tante prove sì
scoraggianti. Quantunque la sua sventura
ridestasse ora più vivamente la mia pietà,
sentiva non so qual cosa di freddo nel cuore che
m'imponeva di farla tacere: l'immagine potente
della sua ingiustizia frenava gli ultimi slanci
del mio affetto e della mia compassione. Doveva
io simulare! A che scopo! Ci siamo lasciati.
"In quanto al contegno di Clemenza, che avrete
giudicato riprovevole, o per lo meno
incomprensibile, vi sarà interpretato da me in
poche parole. Ella ha subìto, come ho subìto io
stesso, l'impero della pietà che egli ci aveva
inspirato. Il suo cuore più giovine, più buono,
più inesperto del mio, accolse e sentì più al
vivo questa pietà; in lei prese forma di amore,
in me forma di amicizia, in entrambi ebbe natura
di un affetto pieno, sincero, profondo. Ma il
cuore di lei fu sempre mio, lo fu doppiamente
dal giorno che Eugenio, accettando il sacrificio
che io gli faceva del mio amore, le dimostrò
quanto la sua anima fosse ingenerosa ed ingrata.
Se ella continuò a dargli pegno di affetto fu
perché io ve la eccitava col rammentarle quei
doveri di pietà e di tenerezza che ci legavano a
lui, perché la minacciava della mia dimenticanza
ove lo avesse abbandonato. Il mio sacrificio era
stato sincero, gli impegni che aveva contratto
verso il mio amico dovevano essere adempiuti.
"In questo stesso momento in cui egli tenta di
uccidere la mia reputazione con un'accusa
terribile, in questo stesso momento in cui mi
odia e m'ingiuria, io non sono venuto meno alle
mie promesse, non ho smentito il mio passato e
la mia condotta. Le mie preghiere, le mie
lacrime, le mie minacce hanno indotto Clemenza a
dargli la sua mano di sposa, l'infelice
sacrifica la sua beltà e la sua giovinezza a due
grandi doveri, alla felicità di uno sventurato
che in gran parte divenne tale per lei, alla
giustificazione ed alla riabilitazione del suo
amante. Sì, Clemenza non lo ha mai amato; se
ebbe istanti di acciecamento per lui, ciò
avvenne in quel periodo del loro avvicinamento,
quando la sua età e la sua inesperienza davano a
qualunque istinto di tenerezza il carattere e la
spontaneità d'un sentimento d'amore. La mia
pressione morale, quella gara di sacrificio
nella quale mi aveva impegnato la sua
ingratitudine, furono la causa di quelle
esitanze, di quell'instabilità del suo contegno,
di cui voi non avrete potuto emettere un
apprezzamento che tornasse lusinghiero per la
sua virtù." "Sì – io dissi – il contegno di
quella fanciulla mi era sembrato
incomprensibile: gli schiarimenti che mi avete
ora dato me lo fanno apparire chiaro e lodevole.
Ma voi avete dunque rinunciato alla sua mano?"
"Sì."
"Ed ella accetta la mano di Eugenio?"
"Con dolore, sì, ma l'accetta."
"La loro unione avrà dunque luogo?"
"Ecco ciò che io non posso dirvi – rispose
Lorenzo. – Sono oramai circa tre mesi dacché io
l'ho veduto, né so quali sieno le sue
risoluzioni. Clemenza persiste nel suo
divisamento, ma egli la respinge e la sfugge. So
che si è abbandonato a tutti gli eccessi di una
ipocondria mortale, che passa le intere notti
vegliando, contemplando le tristi reliquie di
quella sua gamba, fantasticando stranezze
inaudite; e temo che la sua ragione o la sua
vita non abbiano ad essere sopraffatte da quella
terribile malinconia. Il ricredersi dei suoi
inganni, la felicità che gli offre Clemenza
potrebbe salvarlo, la sua fede soltanto potrebbe
ancora salvarlo, se voi avete impero sul suo
cuore adopratevi a ravvivarla, difendete dinanzi
a lui la mia causa; non per me, per lui solo;
per lui che è sventurato assai più che cattivo,
per lui che io amo ancora nonostante
l'ingratitudine dei suoi progetti e del suo
abbandono."
Lorenzo pronunciò queste parole con voce
commossa, malgrado fosse solito dissimularci
colle sue festevolezze la sensibilità delicata
della sua anima. Questa stessa rinuncia che egli
faceva alle esigenze della sua vanità, questa
infrazione delle sue abitudini e delle leggi del
suo amor proprio, mi dicevano quanto egli amasse
ancora Eugenio, quanto sentisse profondamente il
dolore della sua perdita.
"Io lo farò – gli dissi; – non ho ancora impero
alcuno nel suo cuore, ma tenterò di averne. Voi
mi dovete però promettere di secondare i miei
sforzi, di sacrificare ancora qualche cosa per
lui, il vostro risentimento."
"Farò anche questo – disse Lorenzo, – quantunque
disperi di farlo con frutto. Voi dovete tentare
più di ogni altra cosa di farlo risolvere ad
allontanarsi per qualche tempo da questi luoghi,
o a dare sepoltura a quella gamba che è oramai
l'unica origine della sua funesta ipocondria."
"Temo di ciò."
"E io non meno."
"E in tal caso..."
"V'ha a disperare che egli guarisca. Ma voi
verrete a darmi le sue notizie, non è vero? –
aggiunse Lorenzo stringendomi la mano. – Potete
immaginare se io le attenderò con impazienza."
"Sarò da voi più presto che non credete."
Al domani fui sollecito a recarmi al giardino.
Era uno tra i più bei giorni di maggio: gli
alberi erano già tutti coperti di fogliuzze,
ricchi di quel verde puro, lucido, vivo, di cui
la natura non fa pompa che in primavera; i
roseti pieni di bocciuoli qua e là mezzo
sbocciati, aiuole tutte fiorite dei fiori
primaticci, i tulipani, i narcisi, i giacinti,
le giunchiglie, le mammole – i fiori il cui
profumo accompagna quasi sempre le rimembranze
dei nostri amori giovanili. I cigni, le folaghe,
le piccole anitre mandarine si tuffavano e si
inseguivano nel lago; e il fondo del lago
rifletteva le piante, le rive, il cielo alto e
sereno, come se quel piccolo lembo di terra si
fosse trovato sospeso in un oceano sterminato di
azzurro.
Eugenio si era seduto sopra un sedile in un
angolo appartato del recinto. Il suo volto
pallido e bianco spiccava vivamente dal fondo
verde d'una brionia che tappezzava la roccia
artificiale del giardino. Quel non so che di
malato, di sofferente, di morto che vedevasi in
esso, formava un contrasto mestissimo con quei
canti, con quel profumo, con quella giovinezza
piena e feconda della natura.
"Come state?" gli chiesi io, sedendomi presso di
lui, e guardandolo con espressione di tenerezza.
"Male – diss'egli, porgendomi la sua mano e
sorridendomi con quel fare languido e affaticato
che dà l'abitudine del dolore: – ho passato una
cattiva notte, ho avuto dei sogni spaventosi. In
queste variazioni repentine di tempo, riprovo
con una verità tormentosissima un fenomeno che è
comune a tutti i mutilati: risento l'esistenza
della gamba che non ho più, e questa illusione
mi affanna e non mi lascia pace un istante.
"È un'illusione di cui non potete immaginare
tutta la potenza; se il tatto non ve ne
accertasse, vi credereste certo d'illudervi. La
stessa sensibilità, la stessa comprensione di
vita; provate, per esempio, una sensazione al
ginocchio, alla caviglia, al piede... allungate
subito la mano per istinto, volete toccare, e
trovate nulla.
"È una cosa che fa rabbrividire! Voi non sapete
che cosa vi è di orribile in questa espressione:
trovate nulla!"
"Ma non pensate sempre a ciò" io dissi.
"È egli possibile? – interruppe Eugenio. –
Guardate – e mi additò col dito il moncone della
sua gamba, la sua stampella, la sua canna: – io
porto con me le testimonianze della mia
sventura, e le porterò per tutta la vita; potrei
forse recarle meco e obliarle?"
"Potete però – io dissi – alleggerirvi il
fardello di queste memorie, pensarvi il meno che
è possibile, allontanare da voi quella parte che
non vi appartiene più, e che non fa che
richiamarvele ad ogni istante."
"Perché non mi appartiene più? Non è essa mia? A
chi appartiene ella dunque?"
"A nessuno, alla natura. La vostra individualità
morale è ella monca per questo? Il vostro ente
psicologico ha forse partecipato a cotesta
mutilazione? E ove ciò fosse, potete voi
completarlo colla presenza di quella parte, che
si è distaccata dalla vostra esistenza, che è
uscita dal cerchio della vostra vita?"
"Ecco l'errore – esclamò egli con vivacità, –
ecco la fallacia di quei giudizii che la
petulanza degli uomini suole formulare con tanta
leggerezza. Nulla di più insensato di questo
assolutismo di convinzioni che vi siete create
senza attingerle dai fatti, che spesso avete
accettate servilmente senza esaminare. In un
mondo di cose sì molteplici, sì svariate, sì
opposte; in mezzo ad uomini ed avvenimenti che
mutano sempre, possiamo formarci delle
convinzioni stabili, complessive, assolute?
Possiamo noi dire: è così, deve essere così, e
non altrimenti; quale arroganza! Ecco il vostro
errore. Voi credete, e molti crederanno con voi,
che la mia individualità morale abbia nulla
sofferto per quella perdita. Non è vero. I
fenomeni che sono successi nel mio spirito, non
possono essere compresi da voi che non li avete
provati, ma non per questo potete rifiutarvi di
credere che siano avvenuti. Avete forse idee che
non abbiate attinte in qualche modo dai sensi?
L'impicciolimento, la paralisi delle facoltà del
mio spirito non possono per fermo essere
comprese da coloro che non subirono una perdita
uguale alla mia, ma non possono esser negate. Mi
recate degli esempi? Mi citate delle leggi
dedotte dall'esperienza? Ogni uomo è
un'individualità, è un fatto isolato. Siete voi
che imponete delle norme stabili alla natura,
che le segnate un limite inesorabile dal quale
non può uscire!
"Questa stessa debolezza del mio animo, questa
nuova debolezza che mi rende sì necessaria una
parte di me che mi giova a nulla, che è morta
(poiché ben comprendo che è morta, che mi giova
a nulla), non è forse una conseguenza di quel
fatto, una menomanza della mia potenza morale! E
poi, se lo spirito ha d'uopo del corpo per
rivelarsi, per agire, l'incompletazione di
questo mezzo non renderà anche incompleta la sua
azione? Parmi evidente.
"Voi mi consigliate ad allontanare da me quella
porzione che ne fu divelta. Non la considerate
più come una parte di me. Parvi impossibile che
io possa sentire per essa quella specie di
affetto che voi sentite per la vostra gamba, pel
vostro braccio, per qualunque altra parte di
voi. È naturale. Voi ne giudicate inspirandovi
ai rapporti che potete stabilire con essa, la
vedete, e basta; non appartiene a voi; la
trovate lì, sola, morta, distaccata dall'essere
cui appartenne, e il vostro consiglio è una
conseguenza logica del vostro istinto. Ma voi
non pensate che essa appartenne a me, che fu
parte di me per ventitré anni, che io ho
coscienza di questa pertinenza, né la posso
dimenticare; che ho per lei quell'affetto che
voi avete per la vostra gamba viva, né sta in me
il menomarlo o il rinunciarvi. Sapete dirmi qual
è la natura di questo affetto? Ciascun uomo ama
le sue mani, le sue braccia, le altre parti di
sé, poiché ama complessivamente se stesso. Ora,
potete provarmi che una parte morta non debba
amarsi più? E questo amore inesplicabile e
energico che abbiamo per noi medesimi donde ci
viene? Ove è riposto? È collocato in un centro
donde si diffonde e verso il quale ritorna ad
affluire, od è sparso per tutte le parti le
quali si amano tra di loro e formano la grande
unità di questo amore? Mistero singolare ed
inesplicabile! Amiamo noi stessi: è l'amore che
ama l'amore, è una forza che agisce su sé
medesima! Ma se questa potenza di amore ha un
centro in ciascuna parte di noi, svanisce ella
quando queste parti si distaccano, e si
trasformano? Le loro ceneri ci saranno meno care
di quanto ce lo fossero le membra che
componevano? Perché amiamo gli estinti? Perché
amiamo e rispettiamo le loro reliquie? Non sono
essi fuori della vita, fuori dell'amore? E chi
ha assegnato un limite all'amore? Chi lo ha
circoscritto nella vita?
"Ma se voi amate una persona morta, io, vivo,
posso ben cedere alle stesse leggi, posso ben
amare una parte di me che mi ha appartenuto. E
poi... ve lo dissi: io subisco questo amore,
questa attrazione, non tento di trattenerla, né
voi potete giudicare della sua natura."
"È vero, è vero – io dissi più sopraffatto
dall'impeto del suo ragionamento, che persuaso
dalla logica delle sue argomentazioni, – ma...
nondimeno, parmi che dovreste valervi quanto
potete della vostra volontà per vincere, per
dominare questo amore (chiamerò così questa
debolezza del vostro spirito), anziché
compiacervi di secondarla, come mi sembrate
fare."
"Ecco un altro errore. La volontà! Ma credete
voi che vi sia proprio nella nostra natura una
forza libera, distaccata da essa, corrispondente
al concetto che racchiude questa parola? Credete
seriamente che noi abbiamo una volontà? Che
possiamo dirigerla, farla agire come ci aggrada?
Non parvi che ciò che noi chiamiamo maggiore o
minore potenza di volontà non sia che una
maggiore o minore potenza di passioni?"
"Sarebbe a dire?"
"Supponete passioni uguali in tutti gli uomini,
avete una forza uguale di volontà. È naturale.
Noi diciamo di un animo mite, calmo, impotente,
che ha molta forza di volontà; diciamo d'una
natura ardente, inquieta, ricca di passioni, che
ne ha poca, e se ne giova poco. È una parola; è
la stessa cosa che noi chiamiamo virtù nella
donna, difetto di passioni, assenza di forza.
Che se pure questa forza esiste, noi ne abbiamo
esagerato talmente il valore che non è più
possibile averne un concetto esatto, e calcolare
a norma di esso l'importanza dell'uso che ne
possiamo fare. Strano capriccio degli uomini
cotesto, che ha tolto tanta parte di
responsabilità alla natura per gettarla su sé
medesimi!
"Voi mi dite di contare sulla volontà; di
servirmene come di un'arma contro la debolezza
della mia natura. Quale consiglio!
"Sapete fino a qual grado di potenza giunge
questa mia debolezza? Debolezza! È una forza.
Singolare mistificazione! Chiamiamo le passioni
debolezze... Ma veniamo pure al mio caso. Sapete
voi qual è l'influenza che esercita sul mio
animo quella reliquia del mio essere, da cui mi
vorreste allontanare? Quella gamba? Io mi sento
attratto continuamente, incessantemente verso di
lei; è impossibile che io possa sottrarmi un
istante a quella attrazione. Di giorno la vedo,
di notte la sogno. E spesso anche la notte devo
balzare dal letto, accendere la mia lampada,
guardarla e ricoricarmi più tristo e più
atterrito di prima. Non vedete? Non ho più un
centro, non sono più un'unità; sono qui e sono
altrove in un tempo stesso: dove è l'altra parte
di me? Dove è il tutto? La parte sono io che
parlo, od è quella? Ove è la forza unificatrice
di queste frazioni? Ove è l'io? L'io! Io non
appartengo più alla vita, non appartengo del
paro alla morte: il mio io è spezzato: dovunque
lo si collochi egli è incompleto, anzi egli non
è più: mi bilico tra l'essere e il non essere.
Né crediate che quella frazione non senta di
essere morta, o dirò meglio non rifletta sopra
di me quella sensazione. Noi crediamo (né siamo
forse in inganno) che un corpo uscito totalmente
dalla vita non abbia la coscienza del proprio
stato, ma non è lo stesso di un corpo che ne è
uscito in parte soltanto, e della parte che ne è
uscita. Questa è la terribile coscienza, la
terribile sensazione che voi non potrete mai
comprendere. Un corpo interamente vivo ha
coscienza piena, intatta di vita, un corpo
interamente morto non ha coscienza alcuna, io ho
coscienza di vita e di morte. Non vi parlerò dei
fenomeni che produce questo stato. Io vedo tutto
il mio scheletro (ne vedo una parte, e lo vedo
tutto), è sì facile l'immaginarlo, il
ricostruirlo interamente su quella parte! Spesso
nella notte sono assalito da strane visioni,
parmi che le mie ossa si sprigionino, escano ad
uno ad uno dal mio involucro di carne, e vadano
ad aggiungersi a quella parte che ho già
perduto. Allora vedo allungarsi le imposte della
cassetta, e innalzarsi, e innalzarsi, e
apparirvi dentro il mio scheletro intero... io
resto immobile come un'ombra, come una cosa
vuota, come un edificio privo di sostegni... poi
tutto ad un tratto, lo scheletro si sfascia, si
scompone, le imposte della cassetta si
riabbassano, ogni osso rientra a precipizio
dentro di me, rioccupa il suo posto... quello
solo rimane, e io soffro e io grido... io lo
chiamo... sento che mi manca qualche cosa, sento
che non appartengo più totalmente alla vita!...
Ma ve ne scongiuro, distogliamo da ciò il nostro
discorso, se pure non è già troppo tardi per
continuarlo, e per rimanere ancora lontano dalla
mia casa." "Sì – io dissi – calmatevi,
calmatevi, ne riparleremo altra volta; ma perché
volete lasciarmi sì presto?"
"Non lo indovinate?"
"Veramente... no..."
"Dio mio! Sono io qui totalmente? Non vi dissi
che non posso restare lontano più di qualche ora
da lei?"
"Da chi? Da Clemenza?"
"Dalla mia gamba."
"Buon Dio!"
"Avete nominato Clemenza. Mi fate ricordare
della confessione che vi ho fatto ieri. L'avete
forse conosciuta? L'avete veduta?"
"No – io dissi, – ho bensì veduto Lorenzo."
"Lorenzo?"
"E gli ho parlato di voi."
"Di me!"
"Di voi. Ve ne aveva chiesta un'autorizzazione
formale – aggiunsi sorridendo – e ne ho usato."
"È giusto. Ma in che modo? Sentiamo."
"Devo dirvi apertamente il mio cuore?"
"È ciò che dovete fare."
"Non ve ne offenderete?"
"Immagino che non ve ne saranno delle ragioni."
"Precisamente. Ecco, voi siete un pochino
sospettoso – aggiunsi con quella intonazione di
voce più dolce che mi era possibile, battendo
leggermente colla palma della mano sul suo
ginocchio, – siete forse anche un pochino
cattivo, troppo propenso a formarvi delle
prevenzioni e a lasciarvene dominare. Voi avete
trovato in Lorenzo uno di quegli uomini che la
natura sembra produrre per errore, tanto è
avvezza a crearne pochi, uno di quegli amici
fenomenali, di cui possiamo trovare qualche tipo
nei nostri cattivi romanzi, molto più
agevolmente che nell'arida società in cui
viviamo.
"Siate giusto, siate sincero con lui; egli vi ha
sacrificato tutto, giacché l'amore è tutto alla
nostra età: quando voi eravate in Francia ve ne
ha richiamato, quando vi allontanaste da lui la
seconda volta vi ha seguito. Non poteva egli
abbandonarvi a voi stesso? Che cosa avete fatto
voi della sua amicizia? L'avete disconosciuta.
Del suo amore? Glielo avete tolto. Della sua
reputazione? Gliela avete macchiata. Via, siate
imparziale; perché avete dei rancori con lui?
Confessate che vi siete dispiaciuto di trovare
in lui un uomo che aveva diritto a parere, dico
parere, un poco migliore di voi. Noi siamo per
natura degli ingrati: volete trovare le cause di
qualche ingratitudine mostruosa? Cercatele in un
gran beneficio. Noi ci teniamo molto al cuore,
benché sembriamo talora vergognarcene; noi
perdoniamo difficilmente ad una persona che
amiamo, di essersi mostrata più generosa di noi;
il nostro orgoglio è una nobile dote dell'animo,
quando lo conteniamo in noi stessi, quando lo
rivolgiamo esclusivamente sopra di noi; ma è
fango quando lo poniamo come una barriera tra il
nostro cuore ed i cuori degli altri uomini."
"Cessate, cessate per carità – disse Eugenio; –
voi mi pungete troppo aspramente, voi non tenete
conto della mia infermità, delle mie sventure...
Non sapete che la sventura ci rende assai spesso
ingiusti, e..." "Ingiusti! – interruppi io. –
Sta bene, e voi ne convenite. Non è la vostra
ingiustizia che intendo di rimproverarvi, ma la
vostra ostinazione a non credere di essere stato
ingiusto."
"Non nego di esserlo stato prima di quel giorno,
ma dopo?"
"Che giorno?"
"Il giorno dell'amputazione. Come mi
giustificate voi questo delitto?"
"Delitto? Esagerazione! Vergognatevi di aver
concepito un sospetto così mostruoso sulla
condotta di un uomo che vi aveva già tutto
sacrificato. È egli possibile! Pensare ciò di un
tal uomo! Invocare il giudizio de' medici,
avvalorarne il vostro dubbio, gettare una taccia
così infamante sul suo nome! Ma voi non
comprendete dunque quanto sia terribile la
taccia che avete gettata sopra di lui?"
"Voi mi parlate con molta severità, abusate voi
pure della mia debolezza" disse egli
visibilmente turbato.
"Oh! no, no – interruppi io abbracciandolo; –
egli è che io soffro per voi, per Lorenzo, che
mi fa male il pensiero della vostra
ingratitudine, che vorrei vedervi riconciliati.
Ma non pensate che ove pure la vostra
amputazione avesse potuto evitarsi, tutta la
colpa del vostro amico si ridurrebbe ad un
errore di scienza inspiratogli dal timore
eccessivo di perdervi?"
"Vorrei esserne convinto."
"Lo dovrete essere: siate ragionevole e lo
sarete."
"Non è tutto qui – riprese Eugenio con quella
timida esitazione che ci dà la vergogna e la
coscienza del nostro torto, – io dovrei
richiamarmi le idee che esposi poc'anzi circa
l'impotenza della nostra volontà, per
giustificarvi la ripugnanza che mi sento nel
cuore per lui. Lo credete? La mia infermità mi
rese sì debole di mente che io lo accuso del
semplice fatto dell'amputazione, sieno pure
generosi i motivi che lo indussero a farlo.
Accuso Lorenzo come ne accuserei un altro uomo
qualunque. È una puerilità, è un'insensatezza,
lo comprendo, non occorre che me lo
dimostriate... ma che volete? Mi fa male il
vederlo... mi fa male, ecco tutto... Non posso
più vederlo senza soffrire. Investitevi del mio
stato, ponete il vostro spirito nelle identiche
situazioni del mio, e comprenderete che questa
sensazione è naturale, vedrete almeno, che non è
tanto strana come vi potrete forse immaginare."
"Comprendo – io dissi, – ma tentate di vincere
questa avversione per quanto vi è possibile:
avete se non altro, il dovere di
dissimulargliela."
"Questo io farò, e procurerò di riconciliare la
mia anima con lui."
"Ve ne ringrazio. E con Clemenza?"
"Non ho alcun rancore con lei, non ho che
dell'affetto, un affetto che durerà quanto la
mia vita."
"È singolare! Asserite di amarla e la sfuggite.
Ora che potrebbe e vorrebbe essere vostra la
sfuggite. Donde questa contraddizione?"
"Credete voi – diss'egli – che un uomo nel mio
stato possa inspirare una passione di amore che
non derivi tutta dalla pietà? Credete che non
sia delitto il secondarla?"
"È ciò che non credo. Anzitutto Clemenza vi
amava prima che foste colpito da questa
sventura. E poi la pietà non è capace di
sacrifici sì grandi? Perché non pensate a
renderla felice, e a rendere felice voi pure? a
guarirvi il cuore, a mettervi in pace con voi
stesso, e riconciliarvi coi vostri affetti che
non avete motivo di spezzare?"
"Oh mio Dio!" esclamò egli sospirando.
"Non ripudiate – aggiunsi io con fuoco, – non
ripudiate la felicità che il cielo vi offre; ve
ne pentireste troppo tardi. Non abbandonatevi
così a questa tristezza che divora la vostra
gioventù senza frutto, che paralizza tutta la
vostra attività; diffidate della malinconia, di
questo dolce dolore che accarezzate pur troppo,
benché vogliate celarlo a voi stesso; la è una
lima dorata che rode lentamente cuore e vita. Lo
apprenderete troppo tardi. Coraggio, siate meno
debole, pensate meno ed operate di più.
Sorvolate! È la scienza della vita, è il segreto
della felicità. Mi concedete di aiutarvi a
raggiungerla cotesta felicità sospirata! Lorenzo
e Clemenza saranno domani da voi, li rivedrete,
direte loro le vostre afflizioni, aprirete loro
il vostro cuore che è troppo chiuso, troppo
ripieno; vi ricrederete dei vostri errori,
direte a voi stesso: "Come era cieco, come mi
era ingannato!"."
"Oh! grazie, grazie" disse Eugenio trattenendo a
stento le lacrime.
"E Clemenza sarà vostra – proseguii io, – dovete
farlo per essa e per lui; ne avete il dovere."
"Purché ella acconsenta."
"Acconsente."
"Voi mi fate rinascere alla speranza, voi mi
riconciliate ancora colla vita" esclamò egli
sollevandosi per andarsene.
"È una riconciliazione – dissi io – che tutti
gli uomini sentono, o presto o tardi, il dovere
di compiere, poiché viene sempre un giorno nella
vita in cui si comprende l'insussistenza delle
ragioni che ce ne avevano disgustati."
E dopo averlo accompagnato un tratto ci
separammo, ed io mi arrestai un istante ad
osservarlo, mentre si allontanava pei meandri
del giardino.
Tenni la mia promessa. Alcune settimane dopo, in
uno splendido mattino di giugno, Lorenzo e il
suo amico, Clemenza, sua cugina ed io
viaggiavamo in una carrozza da nolo alla volta
di Lecco. Ci trovavamo sì pigiati che non v'era
mezzo a muovere braccio o gamba senza rompere
tutta l'armonia del nostro gruppo; la carrozza
mal sicura sulle molle infiacchite ci dondolava
come un corpo solo a cinque teste, poiché da
quel mucchio di soprabiti e di sottane si
vedevano per l'appunto emergere, con diversa
gradazione di livello, cinque teste, tre di
uomini e due di donna.
Era un mattino stupendo – la strada
fiancheggiata da siepi di quelle acacie a lunghe
spine note pel martirio tradizionale del Cristo,
che hanno le foglie sì piccole e sì lucide – la
via bianca e spazzata, racchiusa tra lunghi
filari di termini di granito, simili a quelle
viuzze che fingono in legno bianco nei loro
paesaggi microscopici gli intagliatori del
Cantone di Berna – il cielo, quello stesso di
cui diceva Manzoni, che è sì bello, quando è
bello. E allora era proprio bello! Anzi, ora che
ci ripenso, era proprio lo stesso cielo; e poco
lungi da noi scorreva la stessa Adda, e in
faccia ci stava lo stesso Resegone colla sua
vetta crestata, addentellata come la enorme
mascella fossile di un mostro antidiluviano.
Pescarenico, quel piccolo gruppo di catapecchie
e di stamberghe tutte coperte di reti e di cenci
d'ogni colore posti fuori a sciorinare, ci stava
pure lì presso: non mancavano a compiere il
quadro che un Renzo ed una Lucia, quei due
amanti sì freddi e pure sì veri, sì veri e pure
sì poco verosimili in quella classe povera e
dimenticata del popolo. Poiché fra quella gente
si pensa di rado a far all'amore, non se ne ha
né l'inclinazione né il tempo. L'amore quale lo
si concepisce e lo si fa nella classe colta è
una superfetazione, una malattia, un contagio
portato dalla civiltà, è un patema che si
trasfuse nel sangue, e lo si eredita, e lo si
trasmette in retaggio col sangue. "Se nel cielo
ci si ammala – mi diceva scherzosamente un
innamorato – ci si ammalerà certo d'amore,
poiché la è in vero una divina malattia." Ma
nelle campagne non si ama, non si può amare:
quegli arcadi scipiti che screditarono la nostra
letteratura coi loro versi o scrissero più
menzogne che rime, o non conobbero dell'amore
che il lato fisico, che il lato brutale. Quella
campagna verdeggiante, quel terreno sì
variamente, sì bizzarramente configurato, mi
richiamava alla memoria tutte le scene stupende
di quel romanzo. Qui si respira i Promessi
Sposi, mi diceva Lorenzo guardando attonito a
quei monti e a quell'orizzonte. Ed io pensava a
quel libro sì celebre, sì perfetto, sì bello e
pure sì arido. A quel romanzo che lessi tante
volte, e tante volte ributtai là tra i miei
libri inutili, dicendo del suo autore: "È buono,
è dotto, è nobile ma non ha anima". E il
succedersi delle idee mi evocava altre
rimembranze, un altro letterato senz'anima. Un
anno prima era passato per quella via in una
carrozza come quella, con un uomo che fu in
procinto di amare, non cattivo, ma debole tanto
da vergognarsi di non esserlo e da arrovellarsi
a divenirlo, il quale non seppe mai perdonarmi
di avermi trovato in tutto migliore di lui.
Strana cosa! Conobbi molti uomini che
arrossivano di essere onesti, e soprattutto di
essere sensibili; vivevano in una continua
contraddizione, in una lotta perpetua coi loro
principii e collo sforzo che facevano di
dissimularli. Tutti o quasi tutti finirono col
diventare disonesti. Mi spaventò spesso questo
raggomitolarsi, questo accovacciarsi che fa la
bontà nel fondo della coscienza, questo
atteggiarsi a vergogna. Preferii sempre la
disonestà aperta, come un filosofo celebre
preferiva ad un nemico equivoco un franco
odiatore. Temo che non venga un giorno in cui il
vizio abbia a pretendere a buon diritto
l'omaggio dovuto alla virtù; in cui s'abbia a
dire, a mo' d'esempio: "Meno male! Mi rallegro
in vedere che la corruzione incominci a
penetrare nelle famiglie". "Chi è che ha
commesso quella buona azione? Lo denuncieremo al
rigore delle leggi." Certo non arriveremo a
tanto, ma chi non direbbe che ne siamo sul
pendio? Eravamo giunti a poca distanza da Lecco,
in un punto in cui s'era convenuto sostare.
L'arrestarsi improvviso di quella trabacca
sdruscita fece sussultare le nostre cinque teste
che s'inchinarono tre da una banda e due
dall'altra a modo di riverenza. Il vetturino
balzando dal suo sedile e spalancando lo
sportello con aria d'uomo che volesse dirci:
"Ecco, siete arrivati sani e salvi, non avete a
che dire; fuori la mancia" stava in disparte
aspettando che ne uscissimo.
"Escano essi; no, escano prima le signore; ma
escano prima essi; come vogliono; di chi è
questa gamba? badi al mio abito; non metta il
piede sulla ruota che può girare."
In capo a cinque minuti eravamo riusciti a
sgomitolarci, a riprender ciascuno il suo, e a
discendere. V'era ancora qualche gamba e qualche
braccio ingranchito, qualche manica e qualche
sottana rimboccata con grande imbarazzo delle
signore, ma a conti fatti eravamo discesi, e ci
accingevamo a salire il pendio del monte che ci
stava dirimpetto. Perché avevamo fatta quella
carrozzata?
È d'uopo sapere che la mia mediazione aveva
riconciliati pienamente Lorenzo ed Eugenio, e
che quest'ultimo aveva finalmente offerto la sua
mano a Clemenza, la quale avevala accettata con
gratitudine. S'erano poste a ciò due condizioni,
l'una richiesta da noi, ed era che Eugenio si
risolvesse prima a separarsi dalla sua gamba,
l'altra offerta spontaneamente da Lorenzo, ed
era che egli sarebbe partito, pochi giorni dopo
il matrimonio di Eugenio, sopra un brigantino
italiano che salpava per la Nuova Olanda, e che
lo accettava a bordo impiegandovelo utilmente
nella sua qualità di medico. Questo piano non
offriva alcuna improbabilità di attuazione;
tutto stava a far risolvere Eugenio a dar
sepoltura alla sua gamba, e anche in ciò v'era
speranza di riuscita. Erano già alcuni giorni
che noi l'avevamo avvezzato gradatamente a
starne lontano, dapprima trattenendolo con noi
in lunghe passeggiate, quindi allontanandolo un
poco dalla città, ed ora... ora s'era fatto un
progetto più serio, una specie di congiura; si
trattava di non lasciarlo tornare in sua casa
prima di tre o quattro giorni, e di allontanarne
in questo frattempo quella cassetta fatale che
gli faceva dar di volta alla ragione. Clemenza
era stata incaricata di prepararlo a questa
sorpresa, libera d'impiegarvi tutti quei mezzi
che teneva a sua disposizione, e non erano
pochi. A cose compiute, il matrimonio si sarebbe
effettuato sollecitamente.
L'amore e la prospettiva di una felicità di cui
aveva già disperato avevano fatto rifiorire un
poco la salute cagionevole di Eugenio. Il suo
volto aveva ricuperata una lieve tinta di rosa,
i suoi occhi avevano come perduto quel non so
che di velato e di languido che acquistano nelle
malattie; la sua conversazione, deviata da quei
soggetti melanconici che la rendevano sì penosa
e sì mesta, fluiva lieta, vivace, piccante... La
convalescenza ha attrattive che non ha la
salute, ha bellezza speciale che affascina; e io
comprendeva in questo modo come Clemenza potesse
mostrarsi lieta di quell'amore, e adattarsi ad
un legame che mi pareva avrebbe dovuto
atterrirla.
Si era convenuto nel nostro piano che, appena
sostati in quella campagna, avremmo lasciato
solo Eugenio con lei; che la fanciulla avrebbe
tentato d'indurlo ad acconsentire che la sua
gamba ricevesse sepoltura; che in questo caso io
sarei tornato a Milano per adempiere a tale
incombenza, ed essi mi vi avrebbero raggiunto di
lì a tre giorni, girando il lago per Como.
Avviandoci su per la falda del monte, noi
pigliammo quindi pretesto dall'impotenza di
Eugenio alla salita, per pregarlo ad attenderci
all'ombra di un verde castagno, e Clemenza,
essendosi seduta la prima, e avendo accennato di
volergli tenere compagnia, non v'ebbe motivo a
replicar parole perché egli accettasse. Li
lasciammo là soli. Lorenzo, la cugina della
fanciulla ed io continuammo a lenti passi la
nostra salita.
Eravamo tutti e tre tristissimi. Il sentiero che
si distendeva dinanzi a noi era sì inuguale e sì
angusto, che c'era forza l'andarcene ad uno ad
uno: io era rimasto in coda alla comitiva, e mi
rivolgeva spesso a guardare la fanciulla seduta
vicino ad Eugenio.
Era un quadro bellissimo e toccante ad un'ora.
In mezzo a tutti quei fiori, a quel verde,
l'abito roseo di Clemenza si allargava in un
ampio cerchio, dal cui centro si vedeva emergere
il suo corpicino pieno e spigliato, e la sua
testolina bizzarra, coronata di riccioloni
biondissimi che le cadevano giù per le spalle, e
si dondolavano ad ogni movenza del capo. Presso
di lei, il volto pallido e malinconico di
Eugenio, e la sua gamba monca, la sua stampella,
il suo bastone che formavano un contrasto
ineffabilmente triste colla vivacità, colla
gioventù, colla festevolezza di quel gruppo. Oh!
Una donna seduta sull'erba! Non provò che cosa
sia un istante di vera e d'innocente felicità in
amore, chi non passò un'ora della sua vita
seduto presso la donna del suo cuore, in un
giorno di primavera, sul verde di una balza, in
un punto solitario della natura. Vi sono tali
rapporti tra la natura e la donna che non
possono essere compresi che in quel momento.
Passate qualche giorno in campagna, tra uomini;
sentirete che vi manca qualche cosa: ponetevi di
mezzo una donna – vecchia o fanciulla, qualunque
ella sia – vi sentirete subito ravvivati, vi
sentirete completi. È un'osservazione che non
pochi uomini avranno avuto occasione di fare.
Col declinare della vita, coll'avvizzirsi del
cuore, si dimenticano molte gioie, molte follie
di gioventù, molti dolci momenti di effusione,
ma non si obbliano mai gli istanti che si
passarono con una fanciulla sul verde di un
prato, inseguendosi, folleggiando, coronandosi
il capo di fiori: rimangono come tanti punti
luminosi nella tenebra impenetrabile del nostro
passato.
Ci eravamo seduti anche noi in un piccolo spazio
verde che si dilatava in mezzo ai castagni.
Lorenzo, accosciato ai piedi di un albero,
guardava fisso non so qual cosa al di là del
lago, guardava senza vedere, come avviene quando
si pensa; e io indovinavo le battaglie che si
combattevano nella sua anima. La cugina di
Clemenza, una donna non bella, ma attraente per
quella mitezza di cuore che ha spesso le stesse
seduzioni della bellezza, guardava Lorenzo, e
poi me seduto dall'altra parte, e poi ancora
Lorenzo; né osava interrompere il corso delle
nostre meditazioni. Per noi era un momento
mesto, per lui solenne, pei due giovani un
momento decisivo. Mi avvicinai a lei: la nostra
neutralità ci poneva quasi in dovere di far
causa comune, di starcene un poco tra noi, e di
discorrere in confidenza dei nostri amici.
Lorenzo era abbastanza lontano perché,
abbassando un poco la voce, non potesse udirci.
"Credete voi – io le chiesi – che riuscirà a
persuaderlo?"
"Senza dubbio – diss'ella; – so quanto è grande
l'influenza che la fanciulla esercita sul di lui
animo, e non ne posso dubitare menomamente. Temo
bensì di Lorenzo."
"Che cosa temete?"
"Che egli non abbia a soffrir troppo della
risoluzione di lei. Il suo sacrificio è grande,
ma le sue forze sono molto limitate; non
crediate che egli sia rassegnato a perderla; vi
è disposto, ma non vi è rassegnato. Egli si
lusinga che Eugenio non acconsenta, e che il
coraggio di Clemenza venga meno al momento
decisivo di usarne. Credete, egli conta
sull'amore di lei; vi conta senza quasi volerlo,
ma non è persuaso ancora di perderla. Si
sottoporrà a questa sventura senza lagnarsi,
perché Clemenza non lo ami. Ne ebbe pietà, lo
amò, si assunse volenterosa il debito di farlo
felice, e lo farà, ne sono sicura, Lorenzo..."
"Lorenzo! – interruppi io. – Ma egli è dunque in
inganno? La fanciulla li ama entrambi ad un
tempo?"
Ella non rispose, e scosse il capo indispettita,
come si dolesse di non essere stata compresa.
"Egli – proseguii io – crede di essere il solo
amato da lei, crede che ella accetti la mano di
Eugenio per le calde preghiere che le ne fece,
la considera come unita a se stesso nello scopo
di compiere un sacrificio comune."
"Lasciategli questa fede – diss'ella. – Strana
cosa è il nostro cuore! Non avete mai amato!"
Io sorrisi.
"Non vi sembrò che il nostro cuore sia qualche
cosa che è fuori di noi? Vi provaste a
dirigerlo? Vi pare che noi possiamo essere
responsabili de' suoi traviamenti?"
"Non saprei, so che amai" io dissi.
"È vero, è vero – riprese ella, – è l'unica cosa
che noi possiamo e dobbiamo ricordare. Che
importa il perché, il come, lo scopo? Quale
insensatezza! Noi vogliamo conoscere le ragioni
di tutto, e ci amareggiamo le dolcezze di tutto.
Sì... perché vi sono dolcezze nel mondo: tutto
sta che la coscienza non ce le faccia apparire
vietate."
Io stava per rispondere quando ascoltammo la
voce di Eugenio che chiamava da lontano.
Guardammo giù dalla balza: egli si avviava
lentamente verso di noi a braccio di Clemenza, e
ci accennava di scendere. Lorenzo si alzò il
primo, e si avviò giù pel sentiero; era pallido
più dell'usato, ma calmo. Discendemmo senza
parlare. Quando fummo vicini ai due giovani,
Clemenza si spiccò dal braccio di Eugenio, e ci
venne incontro correndo e battendo le mani.
"Acconsente, acconsente" ci ripeteva ella con
espressione di una gioia profonda; e mentre sua
cugina mi guardava sottocchi, come per dirmi:
"Vedete se eravate in inganno", io guardava
Lorenzo, il cui volto si era come affilato, come
mutato ad un tratto; e indovinava la violenza
terribile che egli faceva a se stesso per
contenersi, e per mostrarsene lieto. Eugenio
sorrideva, ma era pensieroso.
Io non dimenticherò mai la tristezza muta,
fredda, agghiacciata che s'impossessò di noi nel
rimanente di quel giorno, benché lo
trascorressimo ridendo e folleggiando più
dell'usato.
Nel mattino seguente accompagnai i quattro
giovani alla riva del lago, ove presero imbarco
per Como. Eugenio, porgendomi la sua mano
agghiacciata, e dandomi le chiavi della sua
casa, mi disse: "Fatela seppellire, se è
possibile in uno dei cimiteri della città, e
senza che nessuno lo sappia; accompagnatevela
voi stesso".
E mentre io lasciava la sua mano per
allontanarmi, mi si avvicinò di nuovo, e mi
sussurrò all'orecchio: "Non tarderò a
raggiungervela".
Otto giorno dopo io rivedeva i miei amici che
non avevano potuto tornare prima, perché Eugenio
s'era ammalato a Como sì improvvisamente e sì
gravemente che aveva dato a temere della sua
vita. Egli era stato trasportato nella casa
della cugina di Clemenza, ove s'era riposto a
letto benché si trovasse già in via di
guarigione. Li rivedea come persone che io non
avessi più vedute da tempo, tanto i loro volti
erano mutati, tanto s'era mutata Clemenza
stessa.
Eugenio guarì. Le nozze di lui e di Clemenza
furono celebrate senza preparativi, senza pompe
e quasi in segreto. Lorenzo li accompagnò
all'altare.
Alcuni giorni dopo, fedele alla sua promessa,
venne a dirci addio, e partì per Genova, donde
avrebbe salpato, tre mesi dopo, per la Nuova
Olanda.
Le nostre lagrime e la nostre benedizioni lo
accompagnarono nel suo viaggio.
Non potrei completare più brevemente il mio
racconto che trascrivendo qui alcuni brani d'una
lettera che io diressi a Lorenzo, circa quaranta
giorni dopo la sua partenza:
"Non ho d'uopo di far appello alla tua virtù, e
alla forza dell'animo tuo per prepararti a
ricevere con coraggio la terribile notizia che
sto per darti. Noi perdemmo il più nobile e il
più sventurato dei nostri amici. Eugenio morì
ieri sera di un'affezione di cuore, quella
stessa malattia che lo colse nella nostra ultima
gita sul lago. Sarebbe superfluo dirti le cause
della sua infermità: le potrai indovinare
agevolmente. Fino al giorno della tua partenza
egli si era posto a letto con delirio
ipocondriaco: seppimo più tardi che aveva
trovato modo di rivedere la sua stanza, di cui
Clemenza teneva nascoste le chiavi; e le
impressioni subitevi per la mancanza della sua
gamba, e le tristi meditazioni che vi fece,
provocarono la ricaduta di quella funesta
malattia della quale non doveva più guarire.
Quella fissazione singolare che lo aveva reso sì
ingiusto e sì infelice in questo ultimo anno
della sua vita, non era punto scemata o cessata
per il nuovo legame contratto con Clemenza, non
era fatalmente che assopita. Rientrato nella
quiete della famiglia, in un ordine di idee più
calmo e più regolare, la sua immaginazione meno
distolta dai fatti positivi della vita, spaziò
in un campo più vasto e più ideale – tornò alle
malinconiche aberrazioni di prima. La fermezza
che aveva attinto dall'amore vagheggiato, svanì
coll'amore soddisfatto: s'impaurì, dubitò, si
meravigliò egli stesso della sua risoluzione;
non tardò a soccombere sotto l'oppressione di
questo pensiero.
"Impossibile dirti il processo della sua
malattia. Dissimulò sempre: vergognavasi di
dirne le cause, benché ce le rivelasse sovente
nel suo delirio. Dopo che egli aveva
acconsentito a separarsi dalla sua gamba, temeva
mostrarsi debole nell'apparirci sì
soverchiamente addolorato per essa. Soltanto
negli ultimi giorni della sua vita prevalse il
bisogno di effusione alle esigenze del suo amor
proprio; ci confidò tutto, disse non sentirsi
più il coraggio di vivere così diviso da quella
parte di se stesso, così attratto sempre a
raggiungerla.
"Fu allora che io concertai con Clemenza un
rimedio che peggiorò repentinamente il suo
stato. Prevedendo le tristi eventualità che si
avverarono, aveva trattenuto semplicemente
presso di me quella sua cassetta fatale;
risolvemmo restituirgliela. Fu una risoluzione
funesta che aspettò e inacerbì la crisi della
sua infermità. La vista di quella parte del suo
scheletro, accrescendo in lui quella vaghezza
indefinita di morire che lo travagliava da tanto
tempo, diede alla sua fissazione e a questo
desiderio il carattere di una vera mania. Gliela
si ritolse, ma era troppo tardi, peggiorò
sempre: noi lo perdemmo senza aver potuto
rinvenire alcun rimedio efficace che lo
salvasse. Non ti dirò le nostre lagrime e la
desolazione di Clemenza; so che tu sentirai non
meno intensamente il nostro dolore. Non te ne
scrivemmo mai perché saresti venuto qui, e la
tua vista avrebbe peggiorato il suo stato. Egli
sarà sepolto domani. Clemenza rientrerà nella
sua famiglia.
"Io spero che questa immensa sventura ci tornerà
meno affliggente per ciò, che ti distoglierà da'
tuoi progetti e ti consiglierà a restituirti
alle persone che ti amano e ti desiderano".
Sono trascorsi quattro mesi. Mentre scrivo
queste pagine, Lorenzo e Clemenza stanno
adempiendo alle ultime formalità necessarie per
le loro nozze. Lorenzo è sempre uguale, sempre
fiducioso ed aperto; il suo volto è ancora
animato da quell'allegrezza calma e serena che
dà una retta coscienza. La fanciulla è mesta e
patita, ma è ancor bella, forse ancor più bella,
poiché la bellezza della vergine è spesso una
bellezza fredda ed insipida. Il segreto della
maternità è la scintilla che anima la bellezza
della donna.
Saranno essi felici?
"Io credo – mi diceva ieri la cugina di Clemenza
– che Lorenzo non sarà amato mai quanto lo fu e
lo sarà Eugenio. L'amore ha d'uopo d'essere
santificato dalla morte per durare eterno.
Quella venerazione istintiva di cui circondiamo
le tombe riveste di una aureola immortale i
sepolcri lagrimati dagli amanti. È il prestigio
solenne della morte. È una innocente illusione
che ci trae a credere che noi avremmo amato
eternamente quelle persone che perdemmo, e ne
saremmo state eternamente riamate. Ci è facile e
dolce il lusingarcene, perciò solo che la morte
non può sorgere a smentirci."
"Ma Lorenzo? – chiesi io. – Non sarà egli
amato?"
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