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Francesca Santucci

Napoli

 

Neapolis, Palepolis, Partenope: la magia di Napoli è già tutta racchiusa nei miti delle origini. Secondo gli antichi storici greci e romani la nascita della città sarebbe da collegare alla leggenda della semidea marina, la bellissima Partenope; non essendo riuscita ad ammaliare col suo canto Ulisse che, per resisterle, si era fatto legare dai compagni all’albero della nave, si lasciò morire.
Nel luogo dove si trovava la tomba della sirena sarebbe sorta la città di Partenope.
Secondo Stazio e Licofrone, invece, il nome e l’origine della città sarebbero da collegare a Partenu-Opsis, la figlia di Eumelo, re della Tessaglia, che morì dopo essere sbarcata sul nostro litorale, e qui, in suo onore, sarebbe nata la città.
Nelle leggende Napoli è sempre legata alla bellezza e alla morte (intesa come rigenerazione, certo), sarà forse per questo che è noto il detto “Vedi Napoli e poi muori”, e che Goethe scrisse: Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!
Qualunque sia la verità delle origini è indubbio che è una città davvero ammaliante!
Cielo e mare paiono confondersi nelle identiche tonalità d’azzurro, gli scogli sembrano candidi confetti baciati e ribaciati da un sole sempre tiepido, il Vesuvio, da tempo ormai inattivo (ma non per questo meno pericoloso!), si pone quasi come una presenza benigna e rassicurante, guardiano fedele o angelo protettivo, le isole di Capri, Ischia, Procida, sono simili a gemme disseminate nell’acqua trasparente.
Già le bellezze naturali, da sole, valgono ad affascinare e ad invitare alla sua scoperta, ma Napoli non è solo “cartolina” e folklore, è storia, è tradizione, è musica e tanta sensibile letteratura: basti pensare ai versi perfetti ed armoniosi di Salvatore Di Giacomo, il padre della letteratura partenopea, o alle commedie ricche di umanità del grande Eduardo.
Ed è anche sorriso, con cui i napoletani hanno condito le miserie del passato e continuano a farlo nel presente.
E poi c’è la canzone; la melodia napoletana è un classico, esportata in tutto il mondo, famosa a tal punto che, tempo fa, in Giappone, in occasione di una manifestazione sportiva, fu suonata, credendola erroneamente l’inno italiano, “O sole mio”, ma c’è anche tanta buona musica attuale che ben coniuga tradizione e innovazione.
Come cantava Pino Daniele: Napule è mille culure… ’na camminata inte viche miezo all’ato.
E, forse, proprio questo è il modo migliore per conoscerla, viaggiarci dentro, addentrarsi nei vicoli, scoprirne i colori, annusarne i profumi, ascoltarne i suoni, lasciandosi sorprendere dai tesori che racchiude, insinuarsi in quel budello di strada come Spaccanapoli che veramente taglia in due la città, visitare il Museo di Capodimonte, fare un altro salto indietro nel tempo visitando il Palazzo Reale dove si sono avvicendati Angioini, Aragonesi, Borboni, entrare nel Duomo dove da secoli si rinnova il miracolo del Santo protettore, San Gennaro, evento religioso, certamente, ma anche spettacolare, al quale bisogna proprio assistere.
Fu nel 305, in seguito all’editto di Diocleziano che autorizzava la persecuzione dei cristiani, che Ianuario, vescovo di Benevento, venne decapitato presso la solfatara di Pozzuoli; il sangue sgorgato dalla testa del martire venne raccolto dalla nutrice Eusebia e conservato in due ampolle nelle quali, solo dopo diverse migliaia di anni, precisamente nel 1389, cominciò a ribollire facendo gridare al miracolo. Da allora, puntualmente ogni anno, il primo sabato di maggio, il 19 settembre  e il 16 dicembre, nel Duomo di Napoli, esortato dalla folla che lo acclama e lo implora, lo supplica ed anche lo rimprovera (quando il Santo tarda all’appuntamento l’appellativo è faccia ‘ngialluta) 1 il miracolo si ripete.
Nel secolo scorso uno scienziato ritenne che il supposto composto ematico altro non fosse che un bel frullato di zucchero, cioccolato in polvere ed acqua, ai giorni nostri ancora si sospetta che il sangue del Santo altro non sia che una sostanza fluida suscettibile di fenomeni chimici; comunque sia, innegabile è che la spiegazione scientifica non è mai arrivata e che il miracolo, a dispetto degli scettici e dei miscredenti, continua a ripetersi da secoli conservando intatto il fascino e il mistero, e continuando a confortare quanti, napoletani e non, hanno bisogno di credere in un segno della presenza divina.
E San Gennaro, anima di Napoli, che tanto ama questa città, che da secoli gli tributa incondizionato affetto, non manca mai di ricambiare; certo qualche volta il miracolo tarda ad arrivare (e allora sono disgrazie e tragedie, terremoti e carestie), ma si tratta solo di un piccolo ritardo poiché già l’indomani il Santo non manca di correre ai ripari.
Altro evento da non perdere, perché è un grande momento di partecipazione collettiva del popolo napoletano, è la festa del Carmine; nella popolarissima piazza del Mercato, famosa anche per essere stata, in epoche diverse, lo scenario di fatti tristi, come l’esecuzione di Corradino di Svevia, di Masaniello e dei rivoluzionari della repubblica partenopea del 1799, il 16 luglio si festeggia la Madonna del Carmine, la Vergine detta: “Santa Maria la Bruna”.
Un tempo questa era la festa dei pescivendoli di Porta Capuana e della zona circostante la Marina, che rievocavano la Battaglia della Goletta con i Turchi issando un castelletto difeso dagli infedeli contro i quali, dandogli fuoco, i cristiani riportavano la vittoria; in seguito al castelletto venne. poi.  sostituito il campanile detto di fra’ Nuvolo. Una volta all’anno l’antica Basilica, dedicata alla Madonna omonima, viene riccamente decorata e scenograficamente illuminata dai fuochi pirotecnici, ma il vero soggetto della festa è il campanile che s’illumina e s’incendia stagliandosi come un tizzone ardente contro il cielo scuro della sera. Infine, tra gli applausi della folla festante, gli inni dei fedeli e il suono delle campane, compare l’effigie della Madonna Bruna che compie il miracolo spegnendo "l’incendio”, opera di abili fuochisti, e salvando così il campanile.
E per conoscere Napoli e la napoletanità non può nemmeno mancare la visita alla Chiesa di San Gregorio Armeno.
È proprio in via San Gregorio Armeno, il 3 novembre, subito dopo i morti, che a Napoli inizia il Natale; allora dalle bancarelle allestite per l’occasione fanno bella mostra di sé i pastori dalle mille facce, i fili d’oro e d’argento, le luci multicolori e i mille diversi addobbi natalizi.
È in questa strada che si trova l’omonima chiesa, detta anche di Santa Patrizia, con annesso monastero che, pare, secondo alcuni, fondata da Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino. Secondo altri, in seguito al decreto dell’imperatore Leone III contro il culto delle immagini sacre, un gruppo di monache dell’ordine di San Basilio poco dopo il 726 fuggì a Napoli con le reliquie di San Gregorio vescovo d’Armenia, e qui, sui resti di un antico tempio pagano dedicato alla dea Cerere Attica, come testimoniano alcuni ruderi di opus reticulatum di mattoni e tufo esistenti in vico Santa Luciella, alla sinistra dell’abside, fondò un monastero intitolato al Santo d’Armenia che, dopo aver subito terribili supplizi, convertì al Cristianesimo il re Tiridate.
Durante il periodo normanno il monastero fu unito a quello dedicato al Salvatore e a San Pantaleone, ed assunse la regola benedettina. Nel 1864 vi furono trasferite le reliquie di Santa Patrizia il cui culto, vivissimo ancora oggi, ha fatto conoscere la chiesa anche col nome di Santa Patrizia.
Era in questa chiesa che un tempo si portavano i neonati per le offerte. Una monaca collocava il bambino su una ruota, lo pesava, e quanto era il peso del neonato, tanta cera veniva offerta dalla famiglia. Fu solo alla fine del Cinquecento, però, che la chiesa, completamente rifatta, collocata al centro del convento, prese l’attuale assetto, con un’unica navata e cinque cappelle laterali ricche di decorazioni, con stucchi dorati e marmi policromi risalenti al XVII secolo.
Il soffitto, commissionato dalla badessa Beatrice Carafa, è a cassettoni e costituito da tavole del pittore fiammingo Teodoro d’Errico che vi lavorò insieme ai suoi apprendisti, ad altri connazionali e a Teodoro Magliulo. Suddiviso in venti scomparti, contiene sedici tavole narranti i martirii dei Santi le cui reliquie sono custodite nel convento. Appartengono invece a Luca Giordano gli affreschi del’600 con le Storie di San Gregorio Armeno e San Benedetto; del Fracanzano sono le Storie di San Gregorio, mentre l’altare maggiore, in commesso marmoreo, è di Dionisio Lazzari.
L’ambiente interno contiene la famosa “Scala santa” che, un tempo, in penitenza tutti i venerdì del mese di marzo, le monache dovevano salire in ginocchio.
Uscendo dalla chiesa, attraverso la via San Gregorio Armeno, famosa anche all’estero per le botteghe dei pastori e dell’artigianato sacro, si arriva al chiostro e al Convento di San Gregorio, opera dell’architetto Vincenzo della Monica (al cui ingresso, dove si trovano ancora, unico tramite delle suore di clausura col mondo esterno, le ruote in cui venivano posti i bambini), si accede tramite un ampio scalone decorato con affreschi di Giacomo del Po.
Nell’ampio chiostro, nel quale si affacciano gli alloggi delle suore, c’è, al centro, la splendida fontana barocca in marmo, decorata con delfini, cavalli marini e maschere, e due grandi sculture, raffiguranti Cristo e la Samaritana, di Matteo Bottiglieri.
Da qui si accede alla Sala della Badessa, con affreschi del’ 700 e decori floreali, al primo coro, con gli stalli lignei del ‘500, al corridoio delle monache e alla cappella della Madonna dell’Idria, uniche parte sopravvissute della chiesa originaria.
È su questa parte del Chiostro che si trovano il Refettorio e l’antico forno nel quale le monache di San Gregorio, eccelse nell’arte culinaria, cuociono ancora oggi, con leggendaria bravura, delle sfogliatelle veramente divine.
Dal sacro al profano, bisogna pure andare a rabbrividire nella cappella di Sansevero, dov’è conservata una coppia (forse i suoi servi) sui quali personalmente il principe Raimondo de‘ Sangro, illustre napoletano del secolo dei lumi, tra stregoneria e magia, pare avesse compiuto degli esperimenti.
La cappella patronale della famiglia de’ Sangro, nota come Cappella Sansevero, ma chiamata anche Santa Maria della Pietà o Pietà dei Sangro (o Pietatella perché, secondo una leggenda, una notte vi sarebbe stato arrestato un ladro che, per ottenere la libertà, avrebbe chiesto pietà alla Vergine e, poi liberato, da allora l’immagine sacra fu chiamata Pietatella), è un mirabile esempio napoletano di scultura barocca omogenea dell’arte settecentesca.
La prima pietra fu posta dal duca Giovan Francesco di Sangro di Torremaggiore, valoroso soldato, in seguito ad un voto (dopo essere stato miracolosamente guarito da una malattia), fatto alla Vergine della Pietà, la cui effigie in origine era in affresco su un muro del giardino del suo palazzo; nel 1590 l’affresco fu poi staccato dal muro e collocato nella Cappella, allora congiunta al Palazzo de’ Sangro mediante un passaggio distrutto nel 1889.
Il vero fondatore della Cappella Sansevero fu, però, Raimondo de’ Sangro, principe di Sansevero e di Castelfranco, duca di Torremaggiore e Grande di Spagna che, ai suoi tempi, si distingueva per gli studi, la cultura e l’amore per l’arte.
Tra stregoneria ed alchimia, sul suo conto la diceria popolare elaborò e demolì miti e leggende esistenti solo nella fantasia; si disse che il principe, in continuo contatto col diavolo, nel suo palazzo si fosse macchiato di crimini orrendi, stupri e sevizie, che avesse fatto accecare lo scultore Sammartino per paura che questi potesse concepire un altro “Cristo velato”, che avesse personalmente condotto esperimenti sui vivi, in particolare su una coppia di servi, oggi scheletri nella Cappella (macchine anatomiche suggestivamente conservate in una cavea sotterranea, alla quale si accede tramite una ripida scaletta) perché la donna si era ribellata alle sue voglie, che avesse fatto costruire poltrone con ossa umane e, in odore di sacrilegio, anche con pelle di…cardinali, che il cavo della sua lampada eterna fosse il cranio di una cameriera.
La verità è che il principe di Sansevero, com’è poi emerso dai numerosi approfondimenti storici e dal ritrovamento di una serie di documenti, rinvenuti in parte presso l’Archivio Notarile di Napoli e in parte presso una collezione privata, non era affatto un mago-stregone ma un uomo colto, scienziato ed alchimista, inventore persino di macchine idrauliche, gran mecenate e figura carismatica che occupò un posto rilevante nella vita culturale della Napoli settecentesca.
Nel 1750 Raimondo iniziò l’opera chiamando a Napoli alcuni dei migliori artisti italiani dell’epoca, tra cui il Corradini, il Queirolo, il pittore Nicola Maria Rossi, Francesco Celebrano, pittore e scultore, Paolo Persico e Francesco Maria Russo, che si adoprarono al massimo per edificare questa splendida costruzione.
La facciata, in verità, è alquanto modesta ma, dalla piccola porticina alla calata San Severo o dalla Porta Grande, si entra in un ambiente talmente affascinante da risultare simile ad un’apparizione fiabesca; una lapide è datata 1766, ricordo dell’anno in cui il principe ritenne di aver portato a termine la sua opera.
Questa chiesetta è di forma rettangolare, con un’unica navata con quattro grandi archi per le quattro Cappelle; tra gli archi acuti e il cornicione si trovano dei capitelli corinzi in stucco, disegnati dallo stesso principe, e la volta, affrescata dal Russo nel 1749, rappresenta la “Gloria del Paradiso” con cupolette, costoloni, archi e finestre da cui si affacciano i sei santi della famiglia. Sempre del Russo sono la cupoletta, affrescata sulla volta dell’altare, e i disegni sulla piccola balconata, mentre invece sono opera del Queirolo gli archi delle cappelle, con i cardinali della famiglia nei sei medaglioni e altri quattro medaglioni con ritratti decorativi sui monumenti. Sulla porta maggiore è collocata una piccola tribuna dalla quale partiva il passaggio tra la chiesetta e il Palazzo.
Il pavimento è formato da marmette colorate eseguite, pare, personalmente dal principe, con disegno non finito, quasi uguale al rilievo dell’intarsiatura; l’altare maggiore è diviso dalla Cappella da un arco, sulla cui volta è affrescata una cupola con cupolina, con un effetto, una prospettiva ed una luce tali da ingannare facilmente l’osservatore sulla reale esistenza della cupola. Sotto ogni arco c’ è un monumento sepolcrale con la statua del componente della famiglia lì sepolto e presso ogni pilastro l’urna della rispettiva consorte, con sculture rappresentanti le virtù della dama. Completano le opere un medaglione con ritratto, lo stemma della casata e le iscrizioni latine dettate da Raimondo; sull’altare, sostenuta da angeli di stucco, è collocata l’immagine della “Pietatella”.
Nella Cappella si trovano opere splendide tra le quali spiccano il Sepolcro di Cecco di Sangro e la Deposizione del Celebrano, e le tre splendide sculture “velate”: “La Pudicizia” del Corradini, “Il Disinganno” del Queirolo e, soprattutto, il famoso “Cristo Velato” o “Cristo morto” del 1753, opera di Giuseppe Sammartino su bozzetto del Corradini, di eccezionale espressività, che fa parte dei trentasei modelli lasciati al principe de’ Sangro, prima della morte, dallo stesso Sammartino.

 

Cristo velato, Giuseppe Sammartino


Posta al centro del pavimento della Cappella l’opera s’impone per la bellezza e la singolarità, e non può che destare ammirazione e meraviglia, pensando anche che sarebbe stata eseguita in soli tre mesi. Unanime è il giudizio positivo su quest’opera per il sorprendente realismo e per l’espressività.
La statua, ultimata, fu in un primo momento portata nella bottega del Queirolo e poi successivamente trasportata nella cappella stessa, con una base rettangolare recintata da una ringhiera di ferro.
Il cadavere del Cristo, col capo leggermente reclinato a destra e adagiato su due guanciali, è collocato su un materasso di marmo bianco, poggiante su una base con panneggio in marmo bardiglio. Un sudario, drappeggiato in pieghe minutissime, aderisce per intero alla figura, facendo perfettamente trasparire la muscolatura del corpo e persino i fori dei chiodi alle mani e ai piedi. L’esecuzione del velo, leggero e trasparente sul corpo senza vita, è straordinaria, con effetti plastici che meravigliano per il realismo dell’esecuzione che da sempre colpisce l’osservatore, sia l’uomo comune che lo studioso. Lo stesso Canova, ammirato da tale maestria, cercò di acquistare l’opera a qualsiasi prezzo.
Studi approfonditi sono giunti alla conclusione che il velo non è di marmo, bensì di stoffa finissima marmorizzata dal principe con procedimento alchemico così perfetto da costituire, insieme alla scultura sottostante del Sammartino, un’unica opera.
Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino.Covri la grata della fornace co’ carboni accesi a fiamma di brace; con ausilio di mantici a basso vento. Cala il Modello da covrire in una vasca ammattonata; indi covrilo con velo sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e Calcina. Modella le forme e gitta lentamente l’acqua e la Calcina Misturate.Per l’esecuzione: soffia leve co’mantici i vapori esalati dalla brace nella vasca sotto il liquido composito. Per quattro dì ripeti l’Opera rinnovando l’acqua e la Calcina. Con Macchina preparata alla bisogna Leva il Modello e deponilo sul piano di lavoro, acciocché il rifinitore Lavori d’acconcia Arte. Sarà il velo come di marmo divenuto al Naturale e il Sembiante del modello Trasparire.2
Ideata ed usata personalmente dal principe per preparare il “marmo a velo”, è questa l’autentica ricetta segreta, contenuta in un documento ritrovato all’Archivio Notarile di Napoli nel quale il Sammartino s’impegnava anche a non svelarla. Lo stesso procedimento alchemico sicuramente fu usato per le altre due sculture “velate”: “La Pudicizia” e il “Disinganno”.
… E per quanto riguarda la gastronomia la cucina partenopea è decisamente ottima: trionfano maccheroni e pizze, ma anche mozzarelle di bufala, parmigiana di melanzane, zucchine alla scapece, roventi impepate di cozze, polipi affogati, sauté di frutti di mare e ottimi fritti di pesce, e per il dolce c’è solo l’imbarazzo della scelta, l’amletiano dilemma se tuffarsi prima in un babà al rum o assaltare direttamente le sfogliatelle ricce o frolle, se la pastiera o le zeppole con la crema e la marmellata di amarene.
… Ci torno spesso a Napoli in sogno, col pensiero, con la fantasia, e rifaccio sempre lo stesso percorso: in nostalgica escursione parto dalla popolare via Arenaccia, dove sono nata (così chiamata perché, proprio dove ora ci passa la tangenziale, un tempo lontanissimo c’era la spiaggia), taglio per via Carlo Pecchia (goliardicamente ribattezzata dagli studenti via Carlo Pacchia) dove si trova il liceo classico che ho frequentato, il "Giuseppe Garibaldi", arrivo in Piazza Carlo III, risalgo il corso Garibaldi, supero la stazione centrale, piego a destra, imbocco il corso Umberto, sosto davanti all’Università Federico II, ripensando malinconicamente agli anni in cui ci ho studiato, giungo in piazza Municipio, mi siedo un po’ tra i prati circostanti il Maschio Angioino, poi attraverso Piazza del Plebiscito e, finalmente, imbocco via Caracciolo.
Da qui raggiungo una vecchia postazione che per me conserva intatto il suo fascino: gli scogli dai quali mi sporgevo e stupivo quando credevo che il mare di Napoli fosse realmente abitato dalle sirene!
Questo è il mio percorso, ma Napoli ha mille percorsi da offrire. Se ancora non ci sei mai stato, tu che mi stai leggendo, devi andarci almeno una volta nella vita, perché Napoli è davvero una città magica!

(Francesca Santucci, 1995)

1) Faccia gialla.
2) Da Art dossier “Arte e alchimia”, di Maurizio Calvesi, Giunti, 1986, p. 62-63.