Sul ponte di Praga¹

Paolo Pianigiani
 
(3.07.2005)

E su, lenta a salire, la linea sinuosa e barocca. Instabile e a strapiombo, sulla sua base [2], sul fiume, a rastremàrsi: e a subito morire. Il fiume làssotto, lucido distendersi di spazio, coi gabbiani, lontanissimi dal loro mare, qui in esilio, a cercare fortune, le migliori loro [3]. E la lingua, ritrovata dopo i secoli, intatta e a miracolare, presa a chissàcchì, dai pidocchi neri: neri e inarrestabili [4].
Fino a un certo punto e a certa data, però [5]. E le stelle, aureolate e cinque, a comparire e brillare lassù, fra il contorcersi di danza di tarantola o dell’indemonìo di serpi [6]. Su altro ponte, ma più tiberino e scipiònico [7], altri angioloni instabili e persi nei vortici. La lingua, dicevo, separata in altro scrigno, per la gioia indefèssa delle folle [8]. Nepomucèno lo chiamano, epprima mettono il Giovanni. In tuttilmondo protettore di ponti.Daccuiùno, in Praga, volò nelle acque, per il non dire i pochi peccatucci invero venialissimi, della regina di cuori. Un po’ instabile e duttile, si sa, come tutte le regine [9].
Volare è di queste parti, come più sopra, dalle finestre seconde di piano [10]. Dopo la Montagna Bianca [11]. O nella mente spaurìta epperò dagli amianti, dell’istruttore di processi e castelli per aria, Franz [12]. Dalla casa alla nave volare sul ponte, a stupire lo stupito gabelliere [13]. Voli non pindarici, ma sorretti dalla gravità delle leggi e quindi a perpendicolo. A cercare gli impatti solutòri. Ma poi sorrise, come solo lui sapeva, e andò a cercarsi i silenzi, fra gli alchèmici vapori, introvabili ai viandanti di oggi: o dell’altro ieri [14]. Per dipanare ancora immagini e pensieri, avidi e inquieti di sguardi [15], dalla mente sua, che ne era ricchissima.

 

Ales Jiránek,

Ales Jiránek, "Il ponte di Praga"

[1] L’autore si immagina sul ponte Carlo, davanti alla statua in bronzo di San Giovanni Nepomucèno, primo santo Boemo, utilizzatissimo dai gesuiti per il diffondersi cattolico lassù, fra i lidi avversi e ussiti. Dilucidarne i fregi dorati porta fortuna e avvera i desideri, dichiarano le guide in tutte le lingue del mondo. Così, da noi, in Fiorenza, ci guadagna il toccareilmuso al porcellino, lì disotto alla loggia del mercato, in Orsanmichéle. O che si ritorna, il che è sempre un bel desiderio, a realizzare. Questo scritto nasce alle pagine da riflessione assunta su un impareggiabile libro, Praga Magica, di uno scrittore fra i massimi di quelli nostri: Angelo Maria Ripellino.
[2] Citazione Joyciana (Ulysses) nonché Shakespeariana (Hamlet), ma non importerà qui il dettaglio.
[3] I gabbiani, viandanti dal mare ai monti, galleggiano tranquilli sulla Moldava, fiume di sotto scorrente e a suo tempo assassino materiale e liquido del Santo. Oggi no: specchia invece sguardi dall’alto e ogni tanto delira, anche lui, quando esce dai margini a cercarsi nuovi letti e percorsi. Come un altro scavezzone di colli e di arginàrii, ben noto da noi, in terra di Toscana.
[4] La lingua del Santo, secondo la tradizione, fu trovata intatta e non oltraggiata dal tempo e dalle cose, il 15 Aprile del 1719, quando si procedette ad apposita indago inquisoria nella tomba creduta del Nepomuceno, in san Vito: a mano di František Löwz Erlsfeldu, medicone imparruccatissimo e di corte. Orchestrarono il tutto i gesuiti, instancabili ed efficientissimi managers dei, dal loro quartiere generale, il Klementinum; Joyce, che ci aveva studiato appresso alle sottane in quel di Dublino, li chiamava pidocchi neri, in segno di affettuosa memoria o irrispettoso dispetto. Anche l’autore, qualmente irrispettoso, maligna un pochino sull’identità forse non coincidente dei due proprietari del muscolo chiacchierone. Di diversi secoli li figura distanti.
[5] Il 21 luglio 1773 papa Clemente XIV firmò il decreto Dominus ac Redemptor che sopprimeva l’ordine dei Gesuiti, che probabilmente aveva un po’ esagerato nella missione sua. Nel 1814 ci penserà Pio VII a riaprire il discorso e riammettere la Compagnia di Gesù fra i vivi e i vègeti. Sarà infatti proprio un gesuita a vedersela vis à vis con un Carondimònio, di quelli più carogna, in un film che si sconsiglia ancor’oggi e vivamente ai minori: L’esorcista. Sollecitudo omnium Ecclesiarum il titolo del bollone di ripescaggio, o di seconda chance, fornito di congrue ceralacche rosse e papaline.
[6] Allusione al Laocoonte, che anche lui a movimento spiralato non stava male. Causa prima, però, i serpentacci marini, non i moti mistici e addominali dell’anima.
[7] Quasi inutile la nota a chiarire l’immagine della visione interiore di rimando attinta in memoria; ma diciamolo ai più distratti: si tratta del Ponte S. Angelo, tiberino perché lì di sotto scorre il Tevere e scipiònico perché ritratto diverse volte in celeberrime tele, dallo Scipione, il pittore più romano di Roma. Le sculture, anche quelle di barocco sentire, le scolpì a martellate il grande Gianlorenzo, il Bernini, colla di lui scuola, assolutamente alate e angeliche, in aetate sua non più giovanissima. Lassù, intanto, l’angelo non più pestifero rinfoderava lo sciabolone.
[8] Con gusto macabro e tutto gesuitico, la lingua separata dallo scheletro, fu posta in apposita argentea e diversa urna, a evidenziarne la straordinaria vitalità e importanza: ad majorem dei gloriam. E il tutto adeguatamente improcessionato.
[9] Giovanni Nepomucèno (Jan Nepomucký, nel parlato suo), dopo il patentino di beato (4 di Luglio 1721), ottenne patente di santo (le celebrazioni in Praga dal 9 al 16 Ottobre del 1729), in notevole ritardo sui suoi propri tempi. La palma del martirio la guadagnò infatti per non aver voluto spifferare, sicut erat in votis, al sovrano Václav IV, le scappatelle della di lui consorte e regina, eventuali o probabili qual fossero, ricevute per via di confessionale: fu buttato, proprio dal punto preciso dove c’è oggi la sua statua, nella Moldava dove, seguendo le leggi di natura, regolarmente affogò: scorreva il 16 di maggio del lontanissimo 1383. Come per le altre sculture, in pietra arenaria però, quelle, un movimento a spirale percorre l’immagine del Santo, spiritata e tendente quasi subito all’estasi. Che è mistico raccogliersi e subito delirare.
[10] Il 23 maggio del 1618 ci fu la defenestrazione di Praga, celeberrima fra le defenestrazioni, che incorse ai duo luogotenenti cattolici e d’Asburgo Borita z Martinic e Vilém Slavata, colla giunta, nel mentre che c’erano, di Filip Fabricius, incolpevolissimo lor secretario. Ma rimasero vivi, dai due piani del Castello volati. Nessun gesuita però, quella volta, strillò al miracolo. [11] La battaglia della Montagna Bianca, nei pressi di Praga, vide la sconfitta dei principi Boemi, e l’inizio dello strapotere cattolico e gesuitico, nonché asburgico: connotatosi quasisubito di barocco stile. Correva un anno crudele, il 1620.
[12] Franz Kafka, come è noto ai più se non proprio ai tutti, fu costretto nel 1911 dal padre, a diventare socio di minoranza in una fabbrica di amianto, di proprietà del marito della sorella Elli, Karl Hermann. La qualcosa lo rendeva particolarmente felice, tanto da farlo pensare al suicidio. Era per lui una seconda attività: la mattina si interessava di incidenti sul lavoro, numerosissimi già allora, in terra boema.
[13] Nell’Ottobre del 1912 la famiglia di Kafka abitava nella casa detta alla Nave, di fronte al neocostruito ponte Cech, dove i pensieri di cui alla nota che precede, fecero scrivere a Franz: ...sono stato lungamente alla finestra premendo la faccia contro i vetri e a più riprese avrei avuto voglia di spaventare con la mia caduta il gabelliere sul ponte.
[14] Nell’estate del 1916 Kafka trovò un rifugio silenzioso e ideale allo scrivere, in una viuzza immediatamente sotto al Castello: la via degli Alchimisti, misteriosa e non indicatissima nei cartelli ad uso dei turisti. Di qui la sua non immediata reperibilità, lamentata inispecie dall’autore e qui segnalata alle Autorità, quelle competenti.
[15] Nella casina delle fate, al numero 22 della Zlatá Ulicka, Kafka compose alcuni dei più bei racconti suoi, come Il cacciatore Gracco o Il messaggio dell’Imperatore. Complici tranquillità e genio, assoluti.
 

Prima pubblicazione: marzo 2004
 

Paolo Pianigiani, artista, scrittore, redattore di "Transfinito".

 

 

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