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Il filosofo napoletano Benedetto Croce, ad
un professore tedesco che nel 1934 si era recato in visita per spiegargli
come il Fürher stesse forgiando l’Uomo tedesco, così rispose: -
All’umanità importa l’uomo e non l’uomo tedesco e se nell’uomo persiste o
di nuovo si forma l’animale, l’umanità dovrà lavorare a dissolverlo e
risolverlo in sé.
Questo commento sembra proprio un’anticipazione della domanda cruciale che
si pose Primo Levi intitolando “Se questo è un uomo” il suo
drammatico libro nel quale, strutturato come l’inferno di Dante,
attraverso 17 capitoletti che, simili ai gironi infernali scandiscono la
sua vicenda (pur non mancando descrizioni paesaggistiche e degli interni,
come la neve, le baracche, l’infermeria, l’ufficio delle SS), domina
incontrastato l’Uomo, la figura umana s’impone da sola in qualche
personaggio di rilievo o nella miriade di personaggi simili ai dannati
danteschi, privati di tutto, persino della loro dignità, annientati
spiritualmente e fisiologicamente, che spinge appunto a chiedersi se siano
ancora uomini.
Erano già nella follia di Hitler fin da quando aveva scritto il "Mein Kampf",
“La mia battaglia”, fra il 1925 il 1927, l’antisemitismo, cardine
della sua ideologia, e l’idea dello sterminio, convinto dell’assoluta
superiorità della razza ariana, destinata da Dio a dominare il mondo per
il bene di tutti i popoli, e della necessità di salvaguardare da qualsiasi
elemento non puro.
Per Hitler la grande e spietata battaglia da condurre era quella contro la
razza semita, giudicata inferiore e accusata di voler trascinare il mondo
verso la corruzione, perciò il popolo ebraico andava distrutto.
L’antisemitismo si sviluppò allora, in atroce e progressiva drammaticità,
attraverso una serie di leggi che riguardò prima gli ebrei tedeschi,
togliendo loro i diritti civili, poi si estese agli ebrei di tutta Europa,
ma anche ad altre “categorie di diversi”, slavi, zingari, oppositori
politici, fino ad arrivare allo sterminio sistematico nelle camere a gas.
Per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e
cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di mano
d’opera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da
eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e
sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli…Non si
tratta di forza ma di fortuna, non si può vincere con le proprie forze un
lager. Sono stato fortunato per essere stato chimico, per aver incontrato
un muratore che mi dava da mangiare, per aver superato le difficoltà del
linguaggio…non mi sono mai ammalato, mi sono ammalato una sola volta
alla fine, e anche questa è stata una fortuna, perché ho evitato
l’evacuazione dal lager: gli altri, i sani, sono morti tutti, perché sono
stati rideportati verso Buchenwald e Mathausen, in pieno inverno”…Sono
diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata
imposta. Qualcuno, senza nessuna ragione al mondo, stabilì che io ero
diverso e inferiore: per naturale reazione io mi sentii in quegli anni
diverso e superiore…Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale
per me da spazzare qualunque resto di educazione religiosa che pure ho
avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.
Così dichiarò Primo Levi a proposito del suo libro- testimonianza sul
periodo che aveva trascorso rinchiuso come ebreo nel lager di Auschwitz
dove sopportò sofferenze incredibili, libro unico e prezioso, scaturito
dall’esigenza di raccontare la sua tragica esperienza e di comunicarla
agli altri non soltanto per liberarsene, ma soprattutto per esortare gli
uomini a vigilare sempre sulla pace, sulla libertà, sulla fratellanza e
sulla tolleranza, e dove la brutale verità dei fatti s’impone pagina dopo
pagina, senza nessuna concessione alla retorica, e si trasforma in
occasione per riflessioni generali sulle vicende di cui fu testimone e
vittima.
“Reportage della morte” qualcuno ha definito così la schiettezza con cui
Primo Levi racconta con vivezza sconvolgente il dramma della vita e
l’esperienza dell’internamento nei campi di lavori tedeschi durante la
seconda guerra mondiale, sorti per sfruttare ebrei, slavi, oppositori
politici, delinquenti, ragazzi, giovani e vecchi, uomini e donne, che ne
avevano la forza, in lavori che servivano al Reich: Arbeit macht frei,
il lavoro rende liberi, era l’ironica scritta campeggiante all’ingresso
dei lager, ma che erano organizzati con lo scopo premeditato di
distruggere ogni parvenza dell’umanità.
Nel suo libro Primo Levi indaga dolorosamente sul processo di
annientamento premeditato e sistematico dell’individuo, attuato subito,
fin dall’inizio, costringendo i prigionieri a viaggiare in un vagone
piombato, in uno spazio piccolissimo, su di un pavimento sempre bagnato, a
vivere nei cameroni come uomini-vermi ignudi, obbligandoli al lavoro
forzato, torturandoli con la frusta e con la forca, annullandoli
psicologicamente, piegandoli fisicamente, fino ad eliminarli
definitivamente nelle camere a gas.
“Vivere” nel lager significava entrare in un mondo nuovo, primitivo, dove,
come per applicazione della legge darwiniana dal mondo animale all’uomo,
il forte sopravviveva e il debole soccombeva (ma questo faceva parte della
“scienza pedagogica” di Hitler che diceva: il debole deve essere
spazzato via).
La disciplina del lager ben presto annientava i prigionieri, li
trasformava in stanchi automi che si muovevano spinti esclusivamente dal
primitivo istinto della sopravvivenza, abbrutiti dalla fame, privi di ogni
parvenza di umanità e civiltà, ridotti a pura entità numerica.
E poi c’era l’approdo finale nella camera a gas dove, prima di entrare,
venivano invitati a lavarsi sotto il monito di scritte come Lavatevi
bene perché la pulizia è salute, Non fate economia di sapone, Non dimenticatevi qui il vostro asciugatoio; appena tutti erano
dentro la “camera della doccia”, le porte a tenuta d’aria venivano chiuse
e attraverso valvole del soffitto veniva lanciata la preparazione di
cianuro, contenuta in scatole che portavano la scritta “Per la distruzione
di parassiti animali”, che nel giro di pochi minuti li sterminava tutti.
Prima d’introdurre le salme nei forni crematori, poi, appositi incaricati
recidevano i capelli a chi ancora li aveva, cioè ai cadaveri di quelli che
non erano passati per i campi di lavoro ma erano stati portati subito al
macello, ed estraevano i denti d’oro a chi ne aveva; le ceneri dei
cadaveri, com’è noto, venivano sparsi nei campi e negli orti come
fertilizzanti.
Gli inganni, le astuzie più umilianti, le atrocità, sono descritte in
questo libro che vuole essere la testimonianza diretta di chi ha subito
nell’animo e nella carne quelle crudeltà, ma anche una riflessione sul
problema capitale, quello dell’uomo che vive ad arbitrio dell’uomo. Tutti
gli ignari, gli incoscienti, tutti coloro che con leggerezza e
superficialità farneticano di stragi civili e guerre, perché hanno
dimenticato, oppure sottovalutano, dovrebbero leggere questo libro, perché
la storia potrebbe ripetersi, e dovrebbero scolpirsi bene nella mente il
versetto che apre il volume dell’autore: Meditate che questo è stato.
…Primo Levi morì suicida nel 1987; pochi mesi prima aveva preso posizione
in seguito alla polemica sul revisionismo storico, che negava l’esistenza
dei lager. Forse non sopportò che qualcuno negasse la verità storica
della drammatica esperienza che aveva personalmente vissuto.
SHEMA’
(Ascolta)
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, 10 gennaio 1946)
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