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      Faccende di cuore   Le faccende di cuore ad 
      Elena erano sempre sembrate molto complicate, ora poi le apparivano 
      addirittura pericolose ed assolutamente da evitare.I suoi genitori, ad 
      esempio. Si erano conosciuti poco più che ragazzi, appena diventati 
      maggiorenni si erano sposati. Dopo qualche anno era nata lei. Dopo un 
      altro brandello di anni suo padre era sparito.
 - Non c’era nemmeno prima 
      - diceva la mamma a chi talvolta la compiangeva - Non c’è mai stato 
      realmente e quindi non abbiamo nulla da rimpiangere. Anzi, in questo modo 
      le cose sono più chiare.-
 Elena ricordava pochissimo 
      di suo padre, ed i ricordi che le erano rimasti non si potevano dire 
      piacevoli, perché vi si mescolava sempre una sensazione di inquietudine e 
      di paura.
 Non che lui le avesse mai 
      fatto nulla di veramente terribile, solo qualche schiaffo e qualche urlo, 
      e nemmeno troppo spesso. Ma sempre senza motivo. Punizioni, colpe, 
      castighi ed ammende arrivavano come da un magistrato lontano, da un potere 
      assoluto ed oscuro, fuori dalla sua logica e dalla sua vita di bambina. 
      Quasi certamente il motivo di questo comportamento, pensava Elena ora che 
      si era fatta più grande, stava dentro di lui, suo padre, piuttosto che 
      essere provocato dai propri comportamenti.
 Un uomo così giovane e 
      sempre così scontento, così annoiato. Steso a sonnecchiare sul divano, non 
      amava giocare, passeggiare, guardare la televisione, ascoltare le canzoni, 
      e nemmeno disegnare oppure suonare il flauto e la chitarra come la mamma. 
      Non amava neppure i suoi giornali. Ogni tanto ne acquistava un fascio, li 
      portava a casa in fretta per non spiegazzarli, li posava in bella vista, 
      ma poi non li leggeva. Li accatastava in camera di Elena, impilati alti 
      come una torre, come una parete di carta un poco grigia, un poco colorata. 
      Ma impediva ad Elena di toccarli, anche quelli illustrati, e di 
      sfogliarli, anche quelli ormai vecchi, il cui fruscio leggero piaceva 
      tanto alla bambina piccola.
 - Non può leggere 
      perché è stanco. Il suo lavoro è più stressante del mio. - aveva detto per 
      un po’ la mamma. Ed Elena si era abituata ad essere autonoma e a non 
      disturbarlo.
 Poi però il papà 
      aveva cominciato a sgridarla ed a lamentarsi per altri motivi: - La 
      bambina non sta mai con me. Fa i suoi giochi, i suoi disegni, in camera 
      sua, e non viene a cercarmi, né a parlarmi. Come se io non esistessi, se 
      non contassi nulla. Chi sono io, eh? Nessuno? Scommetto che sei proprio tu 
      a metterla contro di me! - gridava alla mamma.
 Elena non capiva molto bene il significato di 
      questi rimproveri, che tuttavia, certe volte, le facevano temere di essere 
      cattiva. Allora chiedeva alla mamma: - Mamma, sono cattiva io? - e la 
      mamma rispondeva di no.
 Altre volte la mamma le 
      diceva: - Elena, al sabato, anche se io sono a scuola, tu potresti andare 
      a passeggio, o ai giardini, a giocare un po’ con il papà.-
 - Non posso, mamma. - 
      rispondeva Elena.
 - Perché? -
 - Perché il papà dorme, al 
      sabato. Oppure telefona a qualcuno, qualcuno grande. Ed io non posso mica 
      disturbarlo, non posso fargli perdere tempo. -
 Una volta che il papà 
      aveva origliato questo scambio di battute tra la bambina e la mamma: - E’ 
      una bugiarda! - aveva urlato con espressione minacciosa e con gli occhi 
      fuori dalle orbite.
 Elena sapeva di non avere 
      detto una bugia. Però se papà le diceva bugiarda, pensò, si vede che un 
      poco, un pochino soltanto, ma lei era davvero una bambina cattiva. E 
      tacque, impaurita e insicura. Così la discussione non ebbe seguito. Un 
      seguito di parole, almeno, perché poi invece, nei fatti, la mamma si diede 
      molto da fare a inventare cose nuove. Organizzò gite e serate in cui 
      vedere tutti e tre lo stesso film. Insegnò ad Elena a disegnare omini, 
      casette e fiori per regalarli a papà quando rientrava a casa. Comperò 
      giochi da tavola, flauti dolci facili da imparare a suonare, cassette di 
      brevi storielle in inglese: tutte cose con le quali la bambina e il papà 
      avrebbero potuto trascorrere tranquillamente del tempo insieme mentre lei 
      sistemava la casa o nei lunghissimi sabati mattina in cui si trovava a 
      scuola.
 Elena aveva accettato 
      felice quel cambiamento, come in genere le capitava per tutte le proposte 
      che venivano dalla mamma. Con il papà, invece, il nuovo corso non aveva 
      avuto successo. Egli quasi immediatamente aveva cominciato a lamentarsi: 
      tutte quelle novità non gli lasciavano più un briciolo di tempo per sé, 
      nemmeno al sabato e alla domenica, come sarebbe stato giusto. Non poteva 
      nemmeno più leggere i giornali.
 - Quelli, in verità, non 
      li hai mai letti molto.- aveva ribattuto la mamma.  Ma lui aveva cambiato 
      discorso: - La bambina ha sempre un sacco di esigenze, è iperattiva. Non 
      fa che interpellarmi, chiedermi, invitarmi. Avrà ereditato qualcosa di 
      sbagliato da te. Sicuramente. Anche tu sei iperattiva, pensi solo alla 
      scuola, alla pittura, alla carriera. Con il tuo modo di fare le avrai 
      certamente trasmesso delle turbe.-
 - Cosa sono le turbe? - 
      aveva chiesto Elena alla mamma.
 - Delle macchine 
      velocissime, come il vento. Delle macchine che hanno un dispositivo che si 
      chiama turbo! - le aveva risposto la mamma ridendo e scuotendo la testa.
 - Ma io non ho macchine. -
 - Perché sei ancora 
      piccola. Ma quando sarai grande prenderai la patente e  le avrai. 
      Velocissime.- aveva concluso, sempre ridendo, la mamma.
 Un bel sabato mattina, 
      c’era il sole, l’aria era pulita, la primavera era ormai avanzata, Elena 
      era uscita a passeggio insieme a suo padre. Mentre si dirigevano verso il 
      chiosco del giornalaio avevano incontrato un collega di lui, ed erano 
      entrati in un bar.
 - La bambina prende un 
      gelato? - aveva chiesto quel signore.
 - Tu prendi un gelato, 
      vero? - aveva incalzato il papà, rivolgendosi alla bambina.
 - Veramente, io...Non 
      vorrei il gelato.- aveva risposto Elena. La mamma non le aveva sempre 
      detto che era meglio non mangiare gelati, la mattina?  Poteva venirti mal 
      di stomaco, mal di pancia, oppure, se l’ora di pranzo era già molto 
      vicina, potevi guastarti l’appetito. Elena non rifiutava per scortesia, ma 
      per obbedienza.
 Eppure...PAM!  Improvviso 
      si abbatté su di lei un fortissimo manrovescio: - Maleducata! E’ così che 
      si risponde? Te la insegno io l’educazione visto che finora tua madre non 
      l’ha fatto!- l’aggredì il papà strattonandola un poco.
 Il signore imbarazzato 
      andò sulla porta del bar a guardare le macchine che passavano lente per 
      strada. Elena non pianse e non protestò. Benché fosse ancora piccola non 
      le piaceva dare spettacolo di sé. Anche all’asilo i bambini che piangevano 
      venivano presi in giro. Non bisognava mai farsi vedere piangere e 
      singhiozzare, da nessuno.
 Da quel giorno però 
      incominciò a prendere forma dentro di lei una paura strana, una paura 
      ingiusta per una bambina, la paura del proprio padre. Da quel giorno si 
      abituò a vivere come se il genitore fosse un ospite di passaggio, uno 
      strano personaggio ed un imprevedibile inquilino, qualcuno a cui talvolta 
      bisognava far posto, che sempre bisognava trattare con rispetto e con 
      distacco, qualcuno, soprattutto, che non doveva essere né disturbato, né 
      irritato. Mai.
 La cosa apparentemente non 
      costò fatica alla bambina, e nemmeno durò a lungo. Un paio di mesi dopo 
      l’episodio del gelato, infatti, il papà cominciò a tornare a casa solo 
      saltuariamente. Per motivi di lavoro, disse. La mamma gli preparava con 
      cura ordinatissime valigie e, nelle serate in cui egli era assente, 
      insegnava ad Elena a cantare. Accompagnandosi con la chitarra ripescava 
      nella memoria le vecchie canzoni dei falò di quando era ragazzina, una 
      miscellanea strana di nenie popolari, di canti alpini e di canti 
      partigiani. Ad Elena piacevano queste serate in cui era permesso fare 
      baccano, e le piacevano quei canti strani, delle vere canzoni da grandi, 
      così diverse dalle canzoncine cantilenanti dell’asilo.
 Trascorsero altri due 
      mesi, o forse tre, ed il papà non ritornò più, neppure di rado. Con lui 
      sparirono le valigie stracolme da disfare e rifare in fretta, le torri 
      grigie dei giornali accatastati nella camera di Elena, i gelati 
      obbligatori del sabato mattina.
 Seppero poi che si era 
      trasferito in un’altra città. Così le belle serate canore proseguirono 
      senza interruzioni e senza sensi di colpa.
 Ora qualche volta il padre 
      le telefonava, qualche altra Elena se lo trovava all’improvviso davanti 
      alla scuola. In quest’ultimo caso l’uomo non perdeva mai l’opportunità di 
      rivolgersi a quanti salutavano la ragazzina, dicendo: - Sono il padre. 
      Sono venuto per accompagnarla a casa.-  Assumeva in queste occasioni 
      un’aria umile e benevolente verso tutti, anche verso Elena:
 - Per me è molto 
      importante che tu faccia bella figura.-
 Elena gli raccontava cose 
      indifferenti e prive di importanza: cenni sulla scuola e sui passatempi, 
      notizie di conoscenti, fatti letti sui giornali. Qualsiasi cosa, insomma, 
      che non fosse suscettibile di scatenare rimproveri o di innescare 
      discussioni.
 Il padre le si affiancava 
      con passo giovanile lungo tutta la strada, fin sotto casa. Spesso 
      raccontava: - Sai, ci sono ragazze di vent’anni, poco più grandi di te, 
      che mi fanno la corte. Potrei averne quante ne voglio.-
 Allora Elena riviveva 
      l’ultima volta in cui lo aveva visto in casa, i suoi occhi grigi duri e 
      freddi e taglienti come lame, gelidi per l’odio e la rabbia.  Qualcosa che 
      era andato storto nella preparazione delle valigie. Sulle labbra un 
      sorriso di scherno. La mamma senza parole e l’uomo che usciva sbattendo la 
      porta, per poi scendere le scale spavaldo, senza fretta, fischiettando. 
      Finché il portone del condominio si era chiuso e si era fatto finalmente 
      silenzio. Ricordava quanto fosse stato tremendo ed inconfessabile avere 
      paura.
   
 
 
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