La società greca, pur valutando le
differenze fra le varie epoche e la maggiore
considerazione in cui la donna era tenuta nella
civiltà minoica e micenea, fu generalmente al
maschile e misogina, le leggi, la vita
politica, la cultura, furono elaborate dagli
uomini, la donna fu relegata ad un ruolo
passivo, domestico, o legato all’irrazionale e
al basso istintuale, e solo il ruolo di etéra
(accompagnatrice) le consentiva di esprimere una
certa personalità e cultura: si pensi all’etéra
più famosa, Aspasia di Mileto, che affiancò nel
governo Pericle, il grande statista del V sec.
a. C., nel governo ad Atene.
Nella famiglia greca, dove
il capo riconosciuto era il padre, che
esercitava anche missioni di carattere
religioso, e a cui si doveva cieca ubbidienza,
la donna, che contraeva matrimonio combinato
soprattutto per convenienze economiche o
familiari, era confinata nella parte più segreta
della casa, il gineceo, passando, col
matrimonio, dalla reclusione nella casa paterna
a quella nella casa del marito; padrona di
schiave, diventava di fatto anch’ella schiava, e
trascorreva la vita ad attendere ai lavori
domestici e alla prima educazione dei figli.
Diversa era la condizione
della spartana rispetto a quella ateniese e, in
generale alle altre donne greche, sulle quali
operò l’influsso della vicina Asia che le
relegava in una condizione di inferiorità.
La spartana riceveva
un'educazione molto più severa ed austera; le
leggi le vietavano ogni forma di lusso nel
vestiario, nell'acconciatura, nei cosmetici,
perciò non poteva portare gioielli, indossare
vesti ricamate o colorate, e le veniva imposto
di praticare molti sport, come la corsa, e di
vivere all'aria aperta, per fortificare lo
spirito e il corpo e poter procreare figli sani
e robusti, però godeva di una certa indipendenza
e di notevoli diritti che le conferivano una
spiccata dignità.
Da sola amministrava la
casa, creando una specie di matriarcato,
affrontando spesso anche lavori pesanti,
partecipava ai banchetti e collaborava con lo
Stato all'educazione dei figli. Inoltre,
rispetto alla donna ateniese, era più libera;
poteva girare per le strade, indossare gonne
corte, attendere ai giuochi ginnici, cantare e
danzare in compagnia di giovanotti, ed aveva un
posto di riguardo nell'ambito della famiglia,
dovendo assumersi molte responsabilità allorché
sostituiva l'uomo, costantemente impegnato nelle
imprese belliche o negli uffici pubblici.
Nella famiglia romana
l’indiscusso capo della famiglia era il pater
familias, con poteri assoluti riconosciuti dalle
leggi dello Stato, la patria potestas, autorità
eccezionale, che gli dava diritto di vita e di
morte sui figli e sugli schiavi.
Anche la donna (dómina,
cioè padrona) era soggetta alla patria potestas,
ma, pur essendo sottoposta all’autorità paterna
o a quella del marito, sempre sotto tutela di un
uomo (il padre, il fratello, il marito), unita
in matrimoni di convenienza, spesso con notevoli
differenze di età (si pensi alla bella e giovane
quattordicenne Messalina andata in sposa a
Claudio imperatore, cinquantenne, balbuziente e
zoppo), in cui frequente era l’adulterio ed il
ripudio dell’uomo (la donna, invece, poteva solo
essere ripudiata), dopo sposata godeva di un
certo rispetto e di una maggiore indipendenza e
libertà di movimento, pur se limitata, rispetto
alle altre donne dell'antichità, per esempio le
greche, soprattutto le ateniesi, riuscendo anche
ad avere influenza sulla vita pubblica.
Virtuosa per eccellenza,
dedita alla famiglia e ai lavori domestici (Domi
mansit, lanam fecit “rimase in casa, filò la
lana”, Domi mansit casta vixit lanam fecit,
“rimase in casa, visse casta, filò la lana”,
l’ideale condizione femminile era legata al
lanificium, l’antico costume secondo il quale la
matrona personalmente filava la lana e tesseva
le vesti per la famiglia), nell’ambito della
vita familiare ricopriva una posizione
preminente (testimoniata dai lusinghieri
appellativi di mater familias, matrona, domina);
partecipe di tutte le attività familiari, aveva
il governo della casa, vigilava sul lavoro delle
ancelle, si occupava dell'educazione dei figli
nella prima età, era libera di uscire per fare
acquisti o visite.
Inoltre partecipava a
ricevimenti e ai banchetti (però non poteva
stare sdraiata ma seduta, si asteneva dalla
commissatio, il rito finale in cui i convitati
si abbandonavano alle libagioni, e non beveva
vino, ma mulsum, miscela di vino e miele),
frequentava le terme, assisteva agli spettacoli
del Circo, andava a teatro, e veniva sempre
consultata negli affari dal marito, al quale era
molto devota e garantiva costante sostegno
morale.
Giuridicamente, però,
inferiore era la condizione della donna romana:
non le era consentito testimoniare in tribunale
e non poteva reclamare alcun diritto sul
patrimonio del coniuge defunto, ma poteva
ereditare e possedere dei beni.
Successivamente, con
l’aumento della ricchezza, e con la corruzione
politica, nella società romana vennero meno gli
austeri principi, e ne risentì anche l’istituto
familiare (e frequenti divennero i divorzi);
allora le donne non furono più relegate
esclusivamente al ruolo di custodi del focolare,
cominciarono ad avere maggiore libertà e
poterono anche dedicarsi agli affari o alle
professioni pubbliche, esercitando la medicina e
l’avvocatura, ma anche studiare, tenere
conferenze, comporre versi.
Nella vita familiare
etrusca, invece, rispetto a quella greca o
romana, maggiore era l’importanza della donna,
che, come madre e sposa, poteva accompagnare
l’uomo sia nelle cerimonie religiose che in
quelle pubbliche, presenziare ai banchetti,
assistere alle rappresentazioni ginniche (cosa
severamente vietata, tranne che per le
sacerdotesse, presso gli antichi Greci nei
giochi olimpici), abbigliarsi con vesti
splendidi e variopinte e adornarsi di ricchi
monili d’oro.
La grande considerazione
in cui era tenuta, che avvicina il suo ruolo a
quello delle donne della civiltà preellenica o
cretese micenea, in cui era loro consentito
essere presenti a tutte le cerimonie, ed anche
partecipare ai giochi, è provato dal fatto che,
nelle epigrafi funerarie, volendo stabilire
l’appartenenza del defunto ad una determinata
famiglia, si soleva indicare non soltanto il
nome del padre, ma anche quello della madre.
Diversa, invece, pur
provenendo da una civiltà di origine indoeuropea
come quelle greca e romana, era la condizione
della donna nelle popolazioni celtiche, che
disponeva, sicuramente, di libertà ed autonomia
ben più ampie.
Non "angelo del focolare"
(già da piccoli i figli spesso venivano affidati
a persone estranee alla famiglia per essere
educati), le era consentito essere sacerdotessa
(anche druidessa) e guerriera (le donne-
guerriero furono presenti fra i Celti fino al IX
secolo, poi furono bandite per legge, e molte
armi e armature sono state ritrovate nelle
sepolture femminili), regina e capo tribù,
moglie e capofamiglia (se era lei ad essere più
ricca in famiglia, assumendo, così, all’interno
del matrimonio, il ruolo dominante), anche
istruttore d’arme (a educare alle armi l’eroe
gallese Cu Chulainn fu, appunto, una donna,
l’amazzone Scáthacht) e, poiché la società
celtica contemplava tale istituzione, poteva
divorziare.
La donna celta non solo
poteva ereditare, ma, come dimostrano i ricchi
corredi funebri riportati alla luce dagli scavi
archeologici, poteva essere anche molto ricca.
Straordinario il corredo
ritrovato in una camera funeraria scoperta nel
1953 presso delle fortificazioni a Vix, in
Borgogna! Insieme allo scheletro di una
principessa sequana, adorna di bracciali e
collane di perle e recante un diadema d’oro,
c’erano oggetti importati dalle zone più lontane
del mondo, dal nord al sud, dal Baltico e dal
Mediterraneo, persino un cratere greco di
duecento chili capace di contenere cinque
persone.
E godeva pure di una
maggiore libertà sessuale, e, per il fatto di
poter avere più figli da uomini diversi, essendo
difficile in tale promiscuità assicurarsi con
certezza chi fosse il padre di un dato bambino,
la successione era matrilineare.
Fra le donne celte,
oltre all’indomita, forte e coraggiosa Boudica,
esemplare per valore e fierezza, da
Plutarco, nel “De mulierum virtute”,
apprendiamo la storia di altre due combattive e
dignitose figure femminili: Chiomara e Camma.
La regina Chiomara era
la moglie dell’affascinante ed intelligente
Ortagion dei Tolistoboi; rapita e violentata da
un centurione romano, nel momento in cui questi
si chinò a raccogliere l'oro del riscatto, lo
decapitò, e poi tornò dal marito col macabro
trofeo.
E la sacerdotessa Camma
non esitò ad attuare una vendetta mortale contro
chi le aveva assassinato il marito.
Donna galata di
bellissimo aspetto, moglie del tetrarca Sinato,
suscitò la passione del potente Sinorige che,
non riuscendo in alcun modo ad averla, le uccise
il marito, pensando che, liberandosi del rivale,
avrebbe potuto farla sua.
Camma cercò conforto al
dolore della perdita dello sposo esercitando il
sacerdozio, rifiutando tutti i suoi ricchi
pretendenti, ma quando poi Sinorige le propose
le nozze, finse di acconsentire, e lo attirò in
una trappola fatale: lo prese per mano e lo
condusse all’altare per il brindisi rituale ma,
nella coppa dalla quale entrambi dovevano bere,
all’idromele contenuto aggiunse del veleno: così
facendo morì insieme all'assassino, però vendicò
la morte del marito.
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