Brescia

 

Goethe definiva il lago di Garda alta meraviglia del creato, ed aveva ragione, perché il più grande tra i laghi italiani, nonostante le inevitabili contaminazioni dell’uomo, ha conservato sorprendenti aspetti spettacolari, sia come testimonianze storiche ed artistiche sia come paesaggio naturale. Le sue acque ospitano una numerosa e varia fauna ittica, delizia dei pescatori e dei consumatori, e sulle sue sponde, accarezzate da un clima decisamente mite, sfolgora una ricca vegetazione, con specie anche mediterranee, paradiso di uccelli rari e persino di un’insolita colonia di gabbiani reali
E’ proprio sulle rive del lago di Garda, precisamente nel minuscolo e idilliaco borgo di Gardone di Sopra, immerso in una natura incantevole, che si trova una delle più preziose testimonianze storico- artistiche della nostra cultura, patrimonio italiano ed internazionale: il Vittoriale, la lussuosissima dimora di Gabriele D’Annunzio.
Il poeta fece dono della sua ultima residenza all’Italia, allegando all’atto di donazione queste parole: …ardisco offrire al popolo italiano tutto quello che mi rimane, non pingue retaggio di ricchezza inerte ma nudo retaggio di immortale spirto…Qui non a impolverarsi ma a vivere sono collocati i miei libri di studio.
L’ultima residenza storica di D’Annunzio è un eclettico complesso di edifici e giardini. Oltre all’abitazione, decadente ed orientaleggiante, sbalorditivo contenitore di arredi e oggettistica varia, sono di notevole interesse: il suo mausoleo, il teatro all’aperto definito dal vate il  Parlaggio, la prua dell’incrociatore Puglia, incastonata nella collina, il mas dell’impresa di Bùccari, l’aeroplano del famoso volo su Vienna ed il Museo con altri ricordi e cimeli della vita, delle opere e delle imprese del divino Gabriele.
Fu nel 1921 che, con seicento lire d’anticipo, il poeta si aggiudicò la possibilità di abitare la dimora prescelta a Gardone Sopra, che poco dopo gli fu venduta per centotrentamila lire, e dove abitò fino alla sua morte, avvenuta per emorragia cerebrale nel 1938, mentre era seduto alla sua scrivania.
Dopo aver acquistato la proprietà, costituita dalla Villa Cargnacco, definita da D’Annunzio la Prioria, dai giardini e dalla casa colonica del giardiniere, il poeta divenne proprietario anche del frantoio e di altri terreni circostanti la costruzione, oggi affacciata su nove ettari di parco, in parte occupato dal mausoleo, dal teatro e da cimeli, come la nave Puglia, e in parte coltivato a uliveto.
La villa, ingrandita dall’architetto Gian Carlo Maroni, e ribattezzata dal poeta Vittoriale degli italiani, ancora oggi è meta continua di turisti che ne affollano le stanze, sia del museo sia della casa. E non è proprio possibile, che si ami o no il poeta, non emozionarsi aggirandosi nella sua casa, sfiorando con lo sguardo le cose che gli appartennero, sorridendo anche di fronte ad oggetti che testimoniano qualche vezzo particolare o qualche stravaganza di quest’uomo che fu poeta, soldato, eroe, grande amatore, esteta, raffinato, affascinato dalla parola, grande scrittore, artefice di pagine stupende della letteratura italiana, non a caso definito "l’Immaginifico", osannato, avversato, imitato, comunque personalità eccezionale, che entrò nella leggenda quando era ancora in vita.
Interamente arredata da Gabriele D’Annunzio, dall’ingresso alla camera da letto, che riproduce versi danteschi, alle stanze in cui sono conservati circa trentatremila libri, agli studi, quello dove scriveva, quello dove sbrigava la corrispondenza, alla stanza del mappamondo, alla sala della musica, alla stanza delle reliquie (che conserva anche il vessillo rosso della Reggenza del Carnaro, issato a Fiume nel 1920), alla sala da pranzo laccata di rosso e ornata di fregi in oro zecchino in cui la tartaruga personale del poeta giace a capotavola, imbalsamata subito dopo la morte avvenuta per indigestione di tuberose (e lì posta come monito agli ospiti), alla stanza da bagno celebre per il lusso dei tappeti, delle maioliche e delle statue che lo adornano, che raccoglie 900 oggetti quasi tutti blu, in tono con i sanitari, e che reca sui soffitti un motivo pittorico stilizzato su cui si ripete la scritta, ripresa da un’ode di Pindaro, Ottima è l’acqua.
Dovunque, poi, cineserie, tappeti, drappi, fiori e frutta in gesso, ritratti del vate e bottiglie d’acqua minerale personalizzate per il Principe di Montenevoso (titolo del poeta), organi, pianoforti, pelli di leopardo, cimeli di battaglie ed eroiche imprese, come l’aereo del volo su Vienna o la Fiat tipo 4 dalla quale guidò la marcia su Fiume, pure conservati nel complesso del Vittoriale.
Non mancano, in quantità enorme, gli elegantissimi capi d’abbigliamento maschile, raffinati, eleganti e lussuosi  (D’Annunzio si definiva “animale di lusso”), camicie da notte di seta profilate in oro, vestaglie, soprabiti, pellicce, colletti, gilet, abiti da giorno e da sera, scarpe da passeggio, da cavallo, sandali, una quantità incredibile di biancheria, e persino curiosi oggetti di guardaroba come i mocassini erotici ed una camicia da notte con un insolito foro sul davanti, che permetteva al vecchio poeta di incontrare le giovani amanti senza mostrare il corpo segnato dal tempo.
Numerosi anche i capi femminili, favolose camicie da notte e sensualissimi negligés di pizzo e chiffon, fatti realizzare dal Vate per le sue numerose e giovani amanti che continuarono ad affollare le sue stanze fin quasi all’ultimo giorno della sua vita.
Tutto il complesso, poi, è ornato di motti e frasi augurali coniati personalmente da D’Annunzio o ripresi da celebri autori del passato; sul frontone dell’ingresso è inciso il più celebre dei motti dannunziani, che si ritrova anche impresso sui sigilli, sulla carta da lettera e su tutte le opere del poeta, a simboleggiare la sua generosità e munificenza, a cui s’ispirò soprattutto negli anni del Vittoriale: Io ho quel che ho donato. Sulla base del sedile di pietra, posto al centro dell’Arengo, nei giardini del Vittoriale, c’è un altro motto, Non nisi grandia canto, Non canto se non cose grandi; nella sala della musica si trova inciso, al centro del caminetto,l’antico grido di libertà usato nel Rinascimento Chi ‘l tenerà legato?, e sul vessillo rosso della Reggenza del Carnaro campeggia ricamato il motto ideato dal poeta Si spiritus pro nobis, quis contra nos?, se lo spirito è con noi, chi potrà andare contro di noi?, mentre, sul cornicione della stanza, troviamo la frase Cinque le dita e cinque le peccata, giacché per il poeta i vizi capitali erano cinque e non sette, dal momento che non considerava peccati la lussuria e l’avarizia.
All’esterno della Villa ci sono poi numerosi giardini, molti non accessibili al pubblico, tra i quali quello ricco di rose che D’Annunzio non faceva mai cogliere e che sfogliandosi formavano un romantico tappeto: su un architrave, retto da due antiche colonne e sormontato dalla statua di una Venere acefala, campeggia il motto Rosam cape spinam cave, cogli la rosa, evita la spina. E all’ingresso dell’Arengo, un luogo sacro per il poeta, che accoglie con la scritta  Ingressus at non regressus, entrato ma non retrocesso, situato nel boschetto delle magnolie c’è un recinto con sedili di pietra e colonne commemorative, dove il poeta celebrava con i suoi legionari gli anniversari delle imprese di guerra o di Fiume, in cui si trova la colonna dei giuramenti, che reca impresso un altro famoso motto dannunziano, Undique fidus, undique firmum, ovunque fedele, ovunque fermo.
Il Vittoriale, considerato da molti solo una fastosa dimora di gusto eccentrico e kitsch, una specie di bazar nel quale sono accumulati mobili, oggetti e cianfrusaglie di gusto baroccheggiante, in realtà contiene moltissime opere d’arte, antiche e moderne, di valore inestimabile, e oggetti che portano firme illustri, come i pavoni tempestati di pietre preziose di Renato Brozzi, i vasi di Murano di Giò Ponti, i portasigarette e i gioielli di Buccellati, che passano inosservati proprio per la loro quantità ma che per la bellezza sono davvero l’espressione tangibile dell’estetismo dannunziano e dell’ideale della vita come opera d’arte!
Nella sua casa-museo, museo di se stesso soprattutto, D’Annunzio si ritirò disgustato dalla politica e, praticamente, vi si seppellì fino alla morte, ma in questo mausoleo non restò inerte, com’era nella sua natura continuò ad agire, riversando fiumi di parole su centinaia e centinaia di fogli, e proprio tra queste stanze scrisse anche l’ultima poesia, dedicata ai suoi levrieri morti:
Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.