Francesca Santucci

 

Sibilla Aleramo  e Dino Campana

 

 

 

Chiudo il tuo libro,

snodo le mie trecce,

o cuor selvaggio,

musico cuore…

 

con la tua vita intera

sei nei miei canti

come un addio a me.

 

Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,

meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,

 

liberi singhiozzando, senza mai vederci,

né mai saperci, con notturni occhi.

 

Or nei tuoi canti

la tua vita intera

è come un addio a me.

 

Cuor selvaggio,

musico cuore,

chiudo il tuo libro,

le mie trecce snodo.

Sibilla Aleramo a Dino Campana, Mugello, 25-7-1916

 

 

 

In un momento

Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose

Le cercavamo insieme

Abbiamo trovato delle rose

Erano le sue rose erano le mie rose

Questo viaggio chiamavamo amore

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose

Che brillavano un momento al sole del mattino

Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi

Le rose che non erano le nostre rose

Le mie rose le sue rose.

 Dino Campana a Sibilla Aleramo, 1917

 

È tutta compresa fra queste due poesie, presenti nel tumultuoso carteggio, l’intensa, appassionata, difficile storia d’amore e di tormento, intrecciata alla follia, vissuta senza risparmio di emozioni, fra gioie e dolori, botte ed insulti, separazioni e riappacificazioni, dal 1916 al 1918, dai due poeti, Dino Campana, il poeta maudit, e Sibilla Aleramo: lui aveva 31 anni, lei 40.
Dino Campana era nato a Marradi, presso Faenza, il 20 agosto del 1885, da una famiglia d'estrazione piccolo borghese. Dopo il liceo, terminato faticosamente, si iscrisse alla facoltà di chimica dell’Università di Bologna, ma, come più tardi dichiarò, non comprese mai nulla dell’astruso formulario scientifico. E fu proprio a Bologna che uno psichiatra, per i sintomi palesati, definiti “nevrastenia” dallo stesso poeta, gli diagnosticò “una forma psichica a base di esaltazione”, per la quale prescriveva riposo intellettuale, isolamento affettivo e morale e l’uso di bromuro, e che il poeta venne ripetutamente internato in manicomio.
Manifestazione del suo disagio era soprattutto l’irrequietezza, che lo portava spesso a viaggiare come un nomade, incapace di collocarsi in un luogo preciso e di relazionarsi socialmente in modo stabile; per questo fu in Argentina, in Ucraina, e poi girovago per l’Italia, esercitando i mestieri più disparati, come il pianista, il poliziotto, il pompiere, il fabbro, l’operaio, economicamente sostenuto anche dalla famiglia.
La sua attività poetica iniziò nel 1912, con una pubblicazione sul “Papiro”, ma è del 1913 l’episodio inquietante dello smarrimento del manoscritto dei suoi “Canti orfici”, affidato a Papini e Soffici, che Campana, dopo un momento iniziale di rabbia feroce, riscrisse a memoria e pubblicò poi a proprie spese nel 1914.
Nell’estate del 1916 esplose la passione per Sibilla Aleramo, trasformatasi poi da “un viaggio chiamato amore” in vero e proprio calvario.
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, era nata il 14 agosto del 1876 ad Alessandria. La sua vita era stata segnata dal tentativo di suicidio della madre e dalla violenza sessuale subita a 16 anni, che l’aveva costretta a sposare il suo seduttore, sopportando un matrimonio impossibile al quale aveva trovato scampo abbandonando il tetto coniugale ed il figlio, che mai più riuscì ad avere in custodia.
Quando conobbe Dino Campana, Sibilla, socialmente impegnata e già famosa per aver pubblicato il romanzo autobiografico “Una donna”, in cui definiva oppressiva e frustrante l’istituzione matrimoniale, era considerata la donna più bella d’Italia.
Ammirata e corteggiata, libera, ardimentosa e lontana dalle convenzioni, spesso era lei a prendere l’iniziativa con gli uomini dai quali era attratta, in perenne bisogno d’amore, derivatole, per sua stessa ammissione, "in parte da mia madre e in parte dalla perpetua nostalgia di mio figlio", forse innamorata dell’idea stessa dell’amore, aveva avuto già molte storie con letterati ed intellettuali.
La prima volta che le scrisse, attratto dalla donna, e lusingato dal fatto che una scrittrice famosa s’interessasse a lui, un solitario e squattrinato dalla vita simile a quella d’un barbone, e che fino ad allora aveva avuto solo la compagnia di donne di malaffare, Dino le disse: “Non mi parli del suo impegno sociale, non mi racconti del socialismo. Mi interessa lei. La passione e niente altro, tutto il resto è fuori, tutto il resto viene dopo, non importa quando.
Vogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi?  Se non v’annoia troppo, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o giovedì, col primo treno (8,55) e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo che ci si riconoscerebbe facilmente. Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che bisogna ignorare"..
Affascinata dalle prime lettere scambiate con lui, Sibilla andò da Dino, da “Cloche”, come talvolta amava firmarsi.
Lei era bellissima, con il volto ovale, i capelli biondi, la bocca sensuale; lui aveva i capelli tra il biondo e il rosso, la pelle rosea, i baffi spioventi su labbra carnose, gli occhi cangianti: la scintilla scoccò all’istante e immediata fu tra loro anche la passione fisica.
La vicenda d’amore si snodò fra alti e bassi, fra la fitta corrispondenza, i silenzi di lui, gli allontanamenti ora dell’uno ora dell’altro, le liti, le riappacificazioni, il peggioramento dei disturbi nervosi, le suppliche di entrambi per una riconciliazione, gli arresti di Dino continuamente scambiato per un tedesco, fino all’ultimo fermo, quello che lo condusse nel manicomio di San Salvi.
Fu Sibilla a troncare la relazione con Dino, romantico, fragile, ma anche violento, geloso del passato che lei non gli nascondeva, e instabile (nella stessa giornata scriveva “Cara signora, spero che lei abbia capito che tra noi è finita” e poi, tre ore dopo, "Amore mio, mi manchi, ti prego, vieni da me”) e pervaso da una carica autodistruttiva alla quale lei, ansiosa di vivere, non volle mai piegarsi.

Rose calpestava nel suo delirio

E il corpo bianco che amava.

Ad ogni lividura più mi prostravo,

oh singhiozzo, invano, oh creatura!

 

Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,

e folle lo sputo su la fronte che adorava.

Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.

Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male.

S. Aleramo

Fu davanti al cancello del manicomio che terminò definitivamente il doloroso viaggio chiamato amore.
Scrisse Sibilla: “L’ho riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia grata a maglia. Non ero mai entrata in una prigione. E’ stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri avevan quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita”.
Scrisse Dino:
"Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare”.
Sibilla era stata il primo ed unico amore di Dino, ma anche lei lo aveva molto amato; su quell'amore la scrittrice non riuscì mai a scrivere un solo rigo, tanto grandi erano state le emozioni fra loro, e la testimonianza di quella passione restò affidata tutta al carteggio.
Dino Campana morì il 1° marzo del 1932 nell’Ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dov’ era stato internato 15 anni prima, a quarantasette anni, probabilmente per setticemia causata dal ferimento con un filo spinato durante un tentativo di fuga; Sibilla Aleramo morì a Roma il 13 gennaio del 1960, scrivendo ed amando fino alla fine dei suoi giorni.

Francesca Santucci