Ricordo di Ferruccio Caltabiano

 Il professore, lo studioso, l’uomo.

 

“Quel greco amaro che m’insegnò il metodo”  

di Marinella Fiume

 

“Quel greco amaro che m’insegnò il metodo”: in questo modo il raffinato imperatore romano vissuto nel II sec. d.C., nelle pagine delle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, definisce il suo maestro ateniese di Medicina, Leotichide, al quale lo affidò un altro maestro, Scauro, perché il sedicenne “un po’ goffo”, “l’adolescente dall’animo schivo”, affascinato da Atene di cui assaporava per la prima volta “l’aria viva, le conversazioni rapide,” “la disinvoltura senza pari nella discussione”, venisse a contatto non semplicemente con un medico, ma con un “uomo universale”, che gli insegnasse “a preferire le cose alle parole, a diffidare delle formule, a osservare piuttosto che a giudicare”.
Non fu una facile lezione, come si comprende dall’attributo “amaro” che definisce la qualità del maestro e del severo insegnamento,  ma fu la lezione che gli permise di apprendere un metodo, e non solo di studio, ma anche di governo. La lezione di un maestro.
A tutto questo ho pensato quando ho appreso della scomparsa del Prof. Ferruccio Caltabiano, che è stato mio professore di Latino e Greco presso il Liceo Michele Amari di Giarre negli anni scolastici 1965-66, 1966-67 e 1967-68, i tre anni cruciali nella formazione mia e di tanti altri adolescenti di allora, l’ultima generazione, forse, che ha potuto vantare maestri. E non è facile neanche a quell’età il rapporto con i maestri, specie con quelli come lui che ti tengono sempre sulla corda, che ti impediscono di riposare sulle apparenze, sulle facili certezze, sui luoghi comuni, sulle pagine imparate a memoria, quelli che ironizzano sulla tua superficialità e banalità, che non ti blandiscono né ti spiegano quello che tu ti aspetteresti e che magari ti serve immediatamente per l’uso, ma ti insegnano ad imparare, a far funzionare la testa, ad attrezzarti per la comprensione profonda, strutturale e contestuale, delle parole e dei testi classici, ad accedere al “significato del tutto”, ad entrare a poco a poco nello statuto epistemologico delle discipline. Sicché le ore di latino e greco diventavano una palestra per la mente, un esercizio per l’intelligenza, al fine dell’acquisizione di “strutture mentali” (un refrain a lui caro) capaci di cogliere la “complessa linearità” (la “semplice complessità”) delle strutture delle lingue e dei testi classici. Infatti i problemi interpretativi posti dal testo classico non si esaurivano mai al piano filologico, perché il Prof. Caltabiano era capace di spaziare dal testo alla storia alla storiografia alla filosofia alla storia dell’arte alla storia della scienza alla musica.
Un genere di professori, questo, non sempre amato da chi pensa che possa dissociarsi il lavoro intellettuale dalla fatica e dal severo impegno. “Amaro” per tutti uno studio siffatto, figuriamoci come potesse risultarlo per chi al Liceo ci veniva per una scelta familiare o per la ricerca di status!
Il rapporto tra lui e molti allievi, però, non si esauriva tra i banchi del Liceo, ma proseguiva anche quando questi ultimi, già all’Università, continuavano ad avvertire l’esigenza di una sagace guida ravvicinata, sapiente e generosa che l’Università non offre quasi mai, una guida insostituibile fino alla compilazione della tesi di laurea.
Ma anche la scelta dell’Università per molti di noi diventava “obbligata”, pure in quegli anni che preludevano alla contestazione studentesca e che facevano optare per facoltà più “attuali”, come Sociologia o Scienze politiche. In talune assemblee studentesche poteva risultare persino imbarazzante dichiarare di essere iscritti a Lettere classiche…
È difficile per tutti, a consuntivo, riassumere il senso dell’esperienza culturale e umana fatta a scuola in qualità di allievi sotto la guida degli insegnanti. Da ognuno abbiamo preso, probabilmente a ognuno abbiamo  dato. Ma il peso maggiore spetta a quegli educatori che hanno condizionato la nostra  formazione in modo tale che abbiamo sentito in seguito il dovere di proseguire autonomamente per quella strada. Il Prof. Caltabiano ha insegnato appassionatamente, a chi di noi ha voluto liberamente apprenderlo, il senso entusiasta dello studio approfondito e della ricerca disinteressata, una concezione del sapere non parcellizzato e non utilitaristico, un metodo per la sua progressiva - e mai definitiva - conquista, una disponibilità ad aprirsi alle nuove vie del pensiero e della ricerca, fuori dai pregiudizi, dalle mode passeggere, da tutti gli stereotipi e dalle retoriche.  Non si può non rimanergli grati, non si può non ricordarlo come un maestro.
“Fino alla fine dei miei giorni sarò riconoscente a Scauro per avermi costretto a studiare il greco per tempo. Ero ancora bambino, quando tentai per la prima volta di tracciare con lo stilo quei caratteri di un alfabeto a me ignoto: cominciava per me la grande migrazione, i lunghi viaggi e il senso d’una scelta deliberata e involontaria quanto quella dell’amore. Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario della realtà, l’ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. Vi sono altre lingue, lo so bene: alcune sono pietrificate, altre dovranno nascere ancora. Alcuni sacerdoti egiziani m’hanno mostrato i loro antichi simboli, segni più che parole, antichissimi conati di classificazione del mondo e delle cose, idioma sepolcrale d’una razza morta. (…) Quand’ero alle armi, mi sono impratichito nella lingua degli ausiliari celti; ricordo soprattutto i loro canti… Ma i dialetti barbari valgono tutt’al più perché rappresentano una riserva di parole all’espressione umana e per tutto quello che senza dubbio esprimeranno in avvenire. Il greco, al contrario, ha già dietro di sé tesori di esperienza, quella dell’individuo e quella dello Stato. Dai tiranni jonici ai demagoghi ateniesi, dalla pura austerità di Agesilao agli eccessi di Dionigi o di Demetrio, dal tradimento di Dimarete alla fedeltà di Filopemene, tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili e per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco. Altrettanto avviene delle nostre scelte interiori: dal cinismo all’idealismo, dallo scetticismo di Pirrone ai sogni sacri di Pitagora, i nostri rifiuti, i nostri consensi non facciamo che ripeterli; i nostri vizi, le nostre virtù hanno modelli greci. La bellezza d’un’iscrizione latina, votiva o funeraria, non ha pari: quelle poche parole incise sulla pietra riassumono con maestà impersonale tutto quel che il mondo ha bisogno di sapere sul conto nostro. L’impero l’ho governato in greco; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto”.
Ancora Adriano, ancora le sue riflessioni fulminanti alle soglie della morte, impressionanti per la loro modernità e che fanno appello all’uomo di ogni tempo, all’uomo. Ma non sono convinzioni queste che possano farci maturare la lettura di un libro, per quanto straordinario sia, ad esempio, questo della Yourcenar, se non abbiamo avuto maestri che hanno saputo trasmetterci il senso e il peso - la sensibilità e il gusto - della eredità della presenza classica nella cultura occidentale.
Motivo di  grande rammarico, ma non di stupore, è che egli non si sia curato di dare alle stampe, malgrado l’incitamento di illustri accademici e studiosi, la maggior parte degli scritti straordinari sui quali ha lavorato una vita, l’ultimo dei quali verte appunto sui fondamenti della cultura occidentale.
Appresa, incredula, la notizia della sua scomparsa, sono tornata a rileggere le dense pagine da lui affidate alla pubblicazione fortemente voluta dal Preside prof. G. Barletta nel 1886, per i “Cent’anni”dalla fondazione dell’ “Amari”, di cui il Prof. Caltabiano fu alunno negli anni scolastici 1931-37 e Ordinario fino all’età della pensione: “L’intuizione del tragico nell’Oreste di Euripide”. E non vi ho trovato solo il punto più avanzato della critica in relazione al piano complessivo dell’intuizione del tragico, ma tutto intero lo studioso, il professore, l’uomo. Della tragedia euripidea, infatti, Caltabiano coglie particolarmente l’analisi della “natura dell’uomo”, “l’essere uomo con i limiti connessi a tale essenza”, la condizione umana sballottata dal vai e vieni dei marosi della sequela e varietà dei casi che all’uomo capitano (tychai), in un divenire di cui invano egli si sforza di trovare la spiegazione razionale; una sorte, insomma, contro la quale non esistono mezzi di difesa, data la sua causalità. Da qui una concezione esistenziale del tragico consistente nell’assoluta mancanza di mezzi di difesa, nella solitudine e nella ricerca di un’apparente razionalità che giustifichi l’agire dell’uomo, cosciente dei propri limiti, della relatività del pensiero e dell’incertezza degli esiti  dell’azione. Caltabiano coglie così la struttura fondamentale del tragico nell’opposizione vita-morte, naufragio di uomini solitari aggrappati ad esili e provvisorie certezze la prima,  misteriosa evasione,  liberazione dall’inquieta vicenda del vivere, l’altra. Ma il messaggio cupamente pessimistico non approda all’afasia o al cinismo perché, se si affievolisce la fede nei principi, seppur relativi, come mezzi per salvarsi attraverso il dialogo e il confronto, emerge solo l’interesse egoistico, nemmeno più ammantato dalla retorica, l’istinto primordiale alla conservazione conseguita con l’astuzia e la violenza in un inarrestabile crescendo.
Su una siffatta condizione unana aleggia l’ambiguo, beffardo sorriso di chi è capace di capire senza ricorrere ad un insondabile divino, anche questo visto dalla parte dell’uomo, ossia della sua relatività. Una visione del mondo problematica e critica che nasce dalla contestazione e dal rifiuto della violenza, della follia, del deterioramento dei rapporti interpersonali e sociali nella corsa cieca e insignificante della persona umana verso la distruzione totale. Un senso della fugacità dell’uomo, creatura effimera per antonomasia, che non è solo il fondo del tragico euripideo, ma percorre tutta la visione greca della vita e costituisce il fondamento stesso della tradizione umana.
Sono pagine, queste, che sintetizzano una vita, e che ci fanno comprendere pienamente come per intellettuali come Caltabiano - una generazione di intellettuali destinati a diventare miti laici - il senso - molto lacunoso per la ragione - della vita sia nella vita stessa. Una concezione tragica dell’uomo, ma, insieme, un’idea profondamente laica della vita.
La sensibilità dell’uomo, la mitezza, la gentilezza dei modi, seppur bizzarri, la semplicità del linguaggio, la autentica delicatezza e il pudore dei sentimenti, il suo aver conservato una sorta di ingenuità ed innocenza giovanile che gli impedivano a volte di difendersi dall’asprezza della competitività dei rapporti sociali, il senso disingannato del vivere e la disincantata ironia, senza togliere nulla all’autorevolezza del maestro, consentivano di instaurare con lui rapporti  di stima profonda che nel tempo diventavano di comprensione e affettuosa amicizia. Anche della sua fraterna amicizia, come ho goduto il privilegio di ricevere i doni, così serberò  sempre il rimpianto.