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   Prezzo: 7,00 euro

Pagine: 40


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 Francesca Santucci

Racconto nero

ad Ugo

 

 

 

 

L’orologio del campanile scoccava la mezzanotte, quell’ora che sempre atterrisce i bambini ed incute timore negli animi dei più fragili, forse perché indica l’incognita del  trapasso, dal giorno vecchio che finisce al nuovo che principia.
Scoccava la mezzanotte e lo sorprendeva ancora desto, agitato, insonne, carico di tremori ed ansie incontrollate e immotivate, la sigaretta tremante fra le dita nervose, i capelli scomposti, seduto sul bordo del letto in precario equilibrio, i piedi nudi in cerca del rassicurante contatto col pavimento.
Si alzò dal letto, passeggiò e ripasseggiò nella stanza,  bevve d’un fiato un bicchiere d’acqua, accarezzò distrattamente il corpo docile ed arrendevole del suo gatto, poi tornò al morbido tepore delle coperte, nel buio della camera violato da un fioco riverbero lunare che era riuscito ad insinuarsi tra le fessure della persiana, nel silenzio interrotto di tanto in tanto dal lugubre canto della civetta appostata fra i tigli del parco, dagli abbai dei cani guardiani in lontananza, dai brontolii del cielo in tempesta.
Finalmente s’addormentò e sprofondò in un sonno agitato da incubi; infine si ridestò, all’alba dell’indomani.
Era martedì tredici. Un presagio, una premonizione, un triste presentimento che quel giorno si sarebbe verificato l'evento funesto.
Era così, era così tutte le notti: aspettava che nella grande casa scendesse il silenzio, s’accertava che gli unici suoni fossero i ritmi dei profondi respiri altrui e i tic-tac degli orologi, e poi, a passi furtivi, si spingeva con circospezione nel suo studio e, con cautela, ne apriva la porta, richiudendola con altrettanta cautela dietro le spalle.
A tentoni, nel buio della stanza, si precipitava a spalancare la portafinestra: voleva che solo l’astro notturno illuminasse il suo segreto, che solamente il chiarore della luna, da tempo immemore protettrice degli amanti sventurati costretti agli incontri clandestini, fosse testimone del suo infelice amore.
E la luna benevola si mostrava in tutto il suo splendore, facendosi spazio, alta nel cielo, tra le nuvole lattiginose e le fronde degli alberi in sospensione. Poi correva a sedersi sul divano, esattamente di fronte al grande quadro a parete collocato a bella posta in posizione tale da ricevere direttamente la luce notturna: lei era là che l’attendeva, come ogni notte, da tempo incalcolabile, lei, la dama del suo cuore, la donna del ritratto.
Una bella figura di donna ottocentesca, dal viso ovale, i grandi occhi chiari, il nasino un poco impertinente, le piccole labbra a cuore naturalmente ben disegnate e lievemente atteggiate a sorriso, i capelli intrecciati a boccoli e raccolti in bande laterali, in veste tipica del tempo, di voile turchino con volants e maniche lunghe a sbuffo, guanti ed ombrellino di merletto a ripararla appena dagli sguardi troppo invadenti, del pittore che l’aveva ritratta e degli ammiratori.
La guardava, tutte le notti guardava quel bel volto di donna, rapito, estasiato, con rimpianto e profonda nostalgia, perché quella donna lui l’aveva conosciuta davvero, anni e anni addietro, ma nessuno lo sapeva: era questo il suo segreto!
Ed ogni notte la invocava, e lei accorreva al suo richiamo: come per incanto usciva dal quadro tra il fruscio delle sue gonne, odorosa di profumo di rose e gelsomini, e correva a sedersi accanto a lui, reclinava il capo sulla sua spalla, si lasciava stringere dalle sue braccia e, come in cantilena, triste ripeteva la loro storia:
Siamo stati separati centotrenta anni fa. La vita ci ha separati, anzi no, è stata la morte. Io sono
 morta per sempre, tu, invece, sei rinato dopo un lungo salto nel tempo, ma sei stato tu a lasciarmi per primo, secoli fa… Eri   un militare, di famiglia nobile e stimata, distaccato  in servizio nella mia città, e fu qui che ci conoscemmo quando il Destino volle: fu amore a prima vista! Nonostante la tua intemperanza, il tuo carattere impulsivo e ardente, che si sarebbe dispiegato
completamente più avanti, ci frequentammo ossequiosi dell’etichetta e delle norme del tempo, con un lungo corteggiamento su permesso del mio genitore, mai soli, tra balli in società e incontri a teatro, infine ci unimmo in matrimonio.
Furono anni intensi, all’insegna della felicità coniugale, della spensieratezza, e dei salotti mondani che non mancavano mai di annoverarci tra i loro più graditi ospiti. Poi la tua insofferenza per la vita di caserma, le convinzioni pacifiste che avevi, notevoli per la nostra epoca, la vocazione letteraria che iniziava a palesarsi, ti spinsero ad abbandonare la carriera  militare e ad intraprendere l’attività di scrittore e giornalista. Purtroppo cominciarono a manifestarsi anche i primi sintomi della  malattia che, nel volgere di pochi anni, ti avrebbero portato alla tomba.
Tornammo nel tuo paese natale in cerca di giovamento per la tua salute: non vi fu nulla da fare! Vano ogni tentativo, inutile ogni cura, moristi, ed io disperai, fino al giorno in cui più non ressi e mi trafissi il cuore con un tagliacarte. Il Cielo, poi, mi punì per quel gesto e più non rinacqui in forma mortale; ancora oggi vago, incorporea, ma non t’ho mai dimenticato, per questo ogni notte torno e ritornerò sempre, finché mi vorrai. Tu, invece, innocente ed incolpevole, rinascesti, sbocciasti a nuova vita e quasi non ti ricordasti più di me, fino al giorno in cui ritrovasti questo mio   quadro abbandonato nel solaio d’una vecchia casa: subito mi riconoscesti, mi prendesti con te e mi portasti qui; fra le pareti del tuo studio mi restituisti il tepore d’una casa. Da allora ogni notte t’aspetto, perché soltanto il tuo amore può farmi ancora rivivere, seppur solo di notte; io sono ombra e sogno, ma nella continua realtà del tuo sentimento riprendo forma, e vivo ancora…
Quanto durerà quest’amore? E’ esso solo reminiscenza d’un altro amore più antico, fantasia o incredibile verità? Non  è dato saperlo!...
Si ridestò all’alba dell’indomani, risvegliato da un odore acre, da grida risonanti per tutta la
casa, una sola frase pronunciò: lo studio brucia!
Come impazzito corse verso la sua camera: bruciava, bruciava, bruciava tutto, era già tutto  bruciato! Cercò un varco  tra le fiamme, lo trovò efinalmente, riuscì ad  entrare: distrutto, il
suo bene più prezioso, il quadro della bella dama era distrutto.
Non un gesto di disperazione, non un grido inconsulto, non una parola uscì dal suo corpo come impietrito, pensò solo che l’aveva persa, di nuovo, per sempre, e non voleva, non voleva. Un oggetto catturò  la sua attenzione, un oggetto che nemmeno ricordava di possedere…E gli
parve  di   sentire come una voce, un sussurro, un bisbiglio, forse un mormorio tra  il fogliame degli alberi  dove, fino a poco  prima, ancora aveva brillato la luna: veniva  da lontano, da molto lontano e sussurrava:  Non lasciarmi andare, non lasciarmi,  non lasciare che ci separino di nuovo...
Non esitò nemmeno un istante: senza un lamento affondò lo stiletto  nel suo cuore.