
                PAYANDEH SHAHANDEH
                pittrice, scultrice, orafa iraniana a Parigi
                di Eleonora Bellini e Gina Labriola
                
                
          
                
                
                Parigi è un mito per molti ed è città sempre generosa di 
                promesse e di speranze, come poche altre nel mondo. Lì, al 
                decimo piano di un palazzo del 18° arrondissement vive 
                un’artista originale e riservata, tenace e geniale. E’ Payandèh 
                Shahandèh, della quale la scrittrice Gina Labriola, italiana e, 
                da alcuni decenni, anche parigina, nonché inquilina dello stesso 
                palazzo, ha scritto in un suo articolo di qualche tempo fa:
                
                “ […] Payandèh Shahandèh è nata a Sharom, nei pressi di Shiràz, 
                la splendida città a sud-est di Teheran, patria di poeti, come 
                Hafèz e Saadì. Suo padre era un proprietario terriero che aveva 
                anche importanti cariche pubbliche, sindaco per molti anni. 
                Rispettoso di ogni tipo di spiritualità, il padre dava alla 
                figlia un’educazione laica, ispirata tuttavia ai principi della 
                religione iraniana pre-islamica, zoroastriana, che riassumeva in 
                pochi semplici precetti: “parla bene, pensa bene, agisci bene”.
                Ultima di quattro sorelle, la piccola Payandèh, se ne andava in 
                giro nel grande giardino, e restava affascinata dalle 
                pozzanghere, rare in un paese nel quale piove di rado. Aspettava 
                che il sole prosciugasse l’acqua, e poi prendeva a pasticciare 
                col fango. Costruiva pupazzi: tutti i membri della numerosa 
                famiglia, ognuno con le sue caratteristiche, e li metteva ad 
                asciugare. Finito il lavoro, il grembiulino era inzaccherato, 
                mani, piedi, capelli tutti infangati e la madre le faceva 
                severamente pagare il suo estro artistico.
                Come Camille Claudel, scultrice in erba prima di diventare la 
                prestigiosa e infelice allieva di Rodin, Payandèh deve lottare 
                per affermare la sua vocazione di artista, ma non per molto: 
                l’austero padre intuisce le capacità di sua figlia, e le fa 
                costruire un vero atelier nel fondo del giardino. 
                Finiti gli studi, come tutti i giovani intellettuali degli anni 
                ’60, la giovane artista voleva perfezionarsi all’estero. Io 
                lavoravo con mio marito all’Istituto Italiano di Cultura di 
                Teheran. Payandèh venne a chiederci informazioni sui corsi di 
                pittura e sulle scuole d’arte a Venezia. E appunto a Venezia 
                segue corsi di pittura, ma anche di mosaico e gioielleria. 
                Impara la tecnica degli stampi con ossi di seppia che tanto 
                utile le sarà più tardi a Parigi per la creazione dei suoi 
                gioielli.
                
                
                
                
                
                A Venezia ottiene il master e ha i primi successi. E’ 
                organizzata per lei una mostra personale alla galleria “La 
                Toleda”, nel giugno 1969, seguita da critiche molto elogiative. 
                Competenza, originalità, serietà, unite alla straordinaria 
                bellezza e all’esotismo fanno della giovane pittrice un “caso” 
                artistico” nella Venezia alla fine degli anni ’60. […] Al 
                ritorno da Venezia, Payandèh, felicemente sposata, non 
                interruppe la sua carriera artistica, e presto ottenne 
                l’insegnamento prima nei licei artistici e poi all’Università di 
                Teheran. 
                Divenne anche in Iran pittrice nota, che scolpiva e creava 
                gioielli. L’imperatrice Farah Diba le ordinava oggetti preziosi 
                che regalava alle sue dame, damigelle e cortigiane in occasione 
                del Now-Ruz o di altre occasioni importanti. Premio della 
                critica a Venezia, era stata selezionata per la biennale di San 
                Paolo del Brasile. Nel ‘72 fu invitata a esporre i suoi quadri e 
                i suoi gioielli all’Istituto Italiano di Cultura. Ebbe un grande 
                successo. Fu presente S.E. Pahlbod, ministro della Cultura e 
                cognato dello Shah.
                Era nel pieno del suo successo di artista e di insegnante quando 
                scoppiò la rivoluzione islamica. Le università furono chiuse. 
                Cominciò la diaspora, verso la Francia, la Germania, 
                l’Inghilterra, l’Italia, gli Stati Uniti. […] Payandèh dopo 
                molte incertezze, scelse l’esilio per proteggere dalla minaccia 
                della guerra i figli adolescenti. 
                Dopo quasi un lustro, dopo alterne vicende, ci ritroviamo nella 
                ville Lumière, io col mio “mal d’Oriente”, Payandèh col suo “mal 
                d’Italia” doublé dal sentimento dell’esilio e dall’incertezza 
                del suo futuro. Con pochi strumenti, a Parigi Payandèh riprende 
                a fabbricare i suoi gioielli. Cerca lavoro, si iscrive tra gli 
                artisti che fanno capo al Louvre, torna allieva, si iscrive ai 
                corsi di gioielleria dell’ADAC (Assotiation developpement 
                artistique et culturel), efficiente e meritevole organismo che 
                fa capo al comune di Parigi, che organizza corsi e stages su 
                vari aspetti delle arti e della cultura. Ed ecco che un’altra 
                rivoluzione cambia – questa volta in senso positivo - la vita 
                dell’artista. 1989: bicentenario della Rivoluzione Francese. 
                Payandèh viene invitata a presentare, in una mostra organizzata 
                dalla Mairie (il Comune di Parigi) oggetti, gioielli, piccole 
                sculture che commemorino l’importante avvenimento.
                La mostra del bicentenario fu inaugurata da Jacques Chirac, 
                allora sindaco di Parigi, al quale Payandèh offrì un paio di 
                gemelli in argento creati con il calco scavato nell’osso di 
                seppia, tecnica allora poco nota in Francia. Fu davvero il coup 
                de chance. Il responsabile dell’ADAC, presente all’incontro, su 
                suggerimento dello stesso sindaco Chirac, offrì all’artista un 
                lavoro di insegnante per la creazione di gioielli e piccole 
                sculture, nello stesso atelier al quale si era iscritta come 
                allieva. Da allora quasi ogni anno Payandèh ha esposto nelle 
                gallerie dell’ADAC, in mostre personali o in collettive con i 
                suoi allievi, ma anche all’UNESCO o in altre gallerie, anche in 
                altre città francesi. La “favola” dell’artista tra due 
                rivoluzioni non fu sempre rosea. La gioielliera dell’imperatrice 
                che aveva affascinato un Sindaco repubblicano, continuò a 
                lavorare e a lottare […]”.
                
                Ora Payandèh non insegna più, è giunto anche per lei il tempo 
                della pensione; tuttavia ogni giorno nel suo atelier forgia 
                gioielli, piega metalli al suo pensiero, combina forme floreali 
                e simboli geometrici: “gioco” sapiente dell’occhio, delle mani e 
                della mente, che nasce e persevera lassù, sopra i tetti di 
                Parigi e oltre, fino all’orizzonte che abbraccia tutti i tetti 
                del mondo.
                
                
                
                
                 
                
                
           
          
           
          
          
          
          
          
           
          
          
          