Paola Masino

(1908-1989)

 

                             

E’ a partire dagli anni ’30 che si assiste in Italia ad un incremento della produzione letteraria femminile, ma le scrittrici che s’impongono sulla scena del Novecento, pur partecipando autorevolmente al dibattito intellettuale contemporaneo, in conquistato senso d’identità, propongono tematiche e forme espressive ben diverse da quello degli scrittori, e non sono collocabili negli schemi del tempo poiché operano più sulla ricerca personale che sull’ideologia.
Tra queste scrittrici si colloca Paola Masino, autrice oggi rimossa e quasi dimenticata, per taluni aspetti considerata antesignana di tanti temi femministi, impegnata in una continua ed inconsueta ricerca letteraria eppure soffocata nello scrivere e costretta a ripiegare in un tracciato narrativo disperso tra collaborazioni a riviste, giornalismo, rubriche di posta con i lettori ed infiniti appunti annotati sui suoi quaderni.
Nacque a Pisa nel 1908 e morì a Roma nel 1989. Cominciò a scrivere giovanissima, e si nutrì di letture come la Bibbia, Shakespeare, Dickens e Dostoevskij; già nel 1924 scrisse "Le tre Marie", il dramma di tre donne, la madre, la sorella e la moglie d’un grand’uomo, diciamo pure un genio, che non appare mai in scena, e che pure le tiene soggiogate.
Formatasi culturalmente a Roma, collaborò alla rivista "Novecento", "la Gazzetta del popolo", " Il gazzettino" e "Il Tempo". A diciannove anni conobbe Massimo Bontempelli, allora già scrittore affermato, sposato, di trent’anni più vecchio di lei, del quale s’innamorò, appagata dal bisogno assoluto d’amore, e col quale sempre collaborò, in un sodalizio appassionato e letterariamente intenso, in reciproco arricchimento, condividendo le sue esperienze letterarie, curandone un volume di  "Racconti e Romanzi", viaggiando con lui prima a Firenze, poi a Parigi, allargando i suoi orizzonti entrando in contatto con Moravia, De Chirico, Moretti, Martinetti, Pirandello, assistendo il vecchio scrittore durante la sua lunga malattia negli ultimi anni della sua vita, revisionando con zelo l’edizione di alcune opere dopo la sua morte.
I suoi scritti migliori uscirono fra gli anni ‘ 30 e ’40, e le sue opere principali furono: "Decadenza della morte", una raccolta di poesie e prose pubblicata nel 1931, " Monte Ignoso" (1931), un romanzo in parte autobiografico stroncato da Gadda e subito liquidato dalla critica fascista, "Periferia" (1933), "Racconto grosso ed altri" (1941), "Nascita e morte della massaia" ( 1945),  "Memoria di Irene" ( 1945),  e  "Poesie" (1947).
L’opera più interessante della Masino è sicuramente " Nascita e morte della massaia", romanzo tra il fantastico, il surreale, il fiabesco e l’onirico, ma con palesi intenti polemici, che ebbe problemi con la censura e fu sgradito al regime, pubblicato a puntate sulla rivista "Il Tempo", e poi nel 1946, in pieno neorealismo, ma solo parzialmente apprezzato, in cui l’autrice si pone contro il ruolo a cui la donna è destinata dalla famiglia e dalla società e contro il mito della donna angelo del focolare seguendo dall’infanzia, definita polverosa, fino alla maturità, la vita della Massaia, figura tipica della condizione femminile, ossessionata dalle cure della casa, esemplarmente riconosciuta (Esempio Nazionale), morta poi per  decrepitezza.
Il libro narra la storia di una ragazzina che, ignara di se medesima e avvolta  in una funebre selva di fantasie, si estranea con determinazione dalla famiglia e trascorre l’infanzia chiusa in un baule che le è letto, armadio, credenza , tavola, stanza, pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, di libri e relitti di funerali catalogando pensieri di morte. A diciotto anni, però, esce dal baule e, consapevole della disfatta morale alla quale va incontro, ma determinata, s’avvia alla vita normale ed ipocrita di tutte le ragazze della sua età.
Le viene trovato un marito, un anziano zio, e, pur rifiutando di diventare madre, applica puntigliosamente tutti gli insegnamenti impartitigli da sua madre che l’ha educata al ruolo di moglie sottomessa e perfetta casalinga, arrivando al punto di leccare i pavimenti per controllare che siano veramente puliti.
Nel finale c’è il trionfo del paradosso: dopo morta la Massaia è vista uscire dalla cappella del cimitero e accovacciarsi per lucidare borchie e maniglie, poiché anche la tomba deve essere ben pulita, e in una tomba c’è sempre tanto da fare.
Il fascino del romanzo, in femminismo ante litteram, deriva sicuramente dalla messa in discussione del ruolo al quale la donna è destinata dalla società e dalla famiglia, ma anche dalla combinazione dei vari tipi di scrittura che vi s’intrecciano, dal clima metafisico e surrealista tipico del tempo, dalla mescolanza tra fiaba e realtà, ed anche dalla raffinata ironia; basti ricordare questa battuta rivolta al risveglio dalla Massaia al Signore: 

Dovevi dimostrarmi che anche nel rammendare una calza si può trovare un universo, non farmi intendere che ho lasciato l’universo per rammendare calze!


Paola Masino fu attiva fino agli inizi degli anni ’70 collaborando a riviste come "Noi donne", scrivendo libretti d’opera, come "Il ritratto di Dorian Gray", e qualche sceneggiato radiofonico, ma, soprattutto, continuando ad occuparsi scrupolosamente delle opere di Bontempelli, più che delle sue, perseverando ostinatamente fino alla fine alla conservazione della memoria di Bontempelli e alla rinunzia della sua scrittura, tanto che, a chi le chiedeva perché non avesse più scritto, eccezion fatta per i suoi appunti privati, rispondeva:

Ho scritto ancora qualche poesia carica di morte. Quanto al resto, ho avuto troppo da fare: ho dovuto vivere e lavorare.

QUELL’AMORE MI HA INVASA

(Testo inedito dagli appunti di Paola Masino, pubblicato il 26/5/2001 sul quotidiano “La Repubblica”)

Alle soglie della vecchiaia mi accorgo di avere avuto un’infanzia decrepita. Ho vissuto il primo tempo della mia vita come un ricordo, non come una scoperta. Infanzia e giovinezza furono per me due regni favolosi. Non belli, anzi molto spesso pieni di angoscia e di paura, ma addirittura meravigliosi per i mezzi di cui disponevo per combattere angoscia e paura e farmele schiave.
Quando m’innamorai portai intero nel mio sentimento l’astratta violenza delle mie private conquiste. E fu un grande amore. Ma proprio per quell’assoluto che m’ostinavo a voler perseguire, dovetti concedere alla vita quanto le spettava. Fu una breccia. Da allora, insensibilmente ma inesorabilmente, particelle invisibili di concessioni, compromessi, abitudini m’inquinarono; e tanto più esse si facevano numerose, tanto meno io m’accorgevo d’esserne invasa e di andar tramutandomi. Ci misero un po’ di tempo a plasmarmi nel peggiore dei modi, quale ora sono. Oggi so che ho perduto, che la mia vita, cominciata come una straordinaria aurora, s’è spenta e fatta al tutto inutile riducendo in cenere anche quei bagliori iniziali, ove avevo creduto di leggere un più nobile e arduo destino.

Francesca Santucci