Francesca Santucci

Al liceo Garibaldi

(Racconto pubblicato sul "Corriere della sera" nell'ambito del concorso letterario "Nuovi talenti"

 e premiato al 5° Premio Letterario Internazionale "Tra le parole e l'infinito"  ottobre 2004)

dal libro

Francesca Santucci, "Napoli di ieri", edizioni A.L.I. Penna d'Autore gennaio 2005

 -“Error, conditio, votum, cognatio, crimen,  cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
si sis affinis", cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
-Si piglia gioco di me?-interruppe il giovine-Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?

(A. Manzoni, I Promessi sposi)

 

Per chi dalla provincia arrivi a Napoli, con il treno, con l'autobus o in automobile, il liceo classico più vicino è il glorioso "Giuseppe Garibaldi", un imponente edificio di tre piani che si affaccia su piazza Carlo III, ma il cui ingresso è situato in via Carlo Pecchia, sfrontatamente ribattezzato dagli studenti irrispettosi  "via Carlo Pacchia".
Proprio per la facile accessibilità ai provinciali non è mai stato un liceo snob come il Sannazaro, ma molto democratico, accogliendo, sì, i figli del medico di Acerra, dell'ingegnere di Afragola, del professore di Posillipo, del geometra del Vomero o dell'architetto di Pollena Trocchia, ma anche i ragazzi provenienti da famiglie più modeste.
I genitori di questi ultimi, essendosi i loro figli dimostrati promettenti e volenterosi nello studio, una volta facevano mille sacrifici per mandarli a scuola, convinti che l'accostamento al favoloso mondo del liceo classico avrebbe assicurato loro un buon avvenire.
E fu proprio in questo crogiuolo di studenti dalle origini più disparate che, tanti anni fa, fece il suo ingresso anche Paoletta Cannavacciuolo di via Sant'Attanasio, figlia di una coppia che potremmo definire di proletari benestanti, essendo il padre un  carnacottaro 2 col bancone al corso Garibaldi, e la madre un’ ugliarara 3 che aveva ereditato dai nonni una rivendita di olio, olive e capperi nei pressi del liceo.
Dei genitori il personaggio più singolare era sicuramente la madre, un donnone di novanta chili di peso per un'altezza di circa un metro e cinquanta, con una folta peluria scura sul labbro superiore e, a dare ascolto a certi pettegolezzi, anche intorno al mento.
C'era, infatti, chi asseriva di aver intravisto un giorno, da uno spiraglio lasciato inavvertitamente aperto nel basso dei Cannavacciuolo, la donna seduta, con un largo tovagliolo intorno al collo, la testa reclinata all'indietro, ed il marito armeggiarle intorno con pennello, crema e rasoio nell'inequivocabile atteggiamento di chi si accinge ad eseguire una bella rasatura.
La cosa fu risaputa subito in tutto il quartiere e, dopo un po', ci si cominciò ad interrogare sul perché l'uomo non eseguisse una rasatura completa, eliminando alla consorte anche i baffi, e la spiegazione comunemente data dalla saggezza popolare fu che  "alla donna i baffi crescono più velocemente della barba".
In verità il poveretto non riusciva a tenere il passo con la ricrescita della peluria, sicché, di comune accordo con la moglie, aveva deciso di desistere dall'impresa ed arrendersi all'evidenza: effettivamente i baffi crescevano troppo in fretta!
Comunque Paoletta non si lasciò mai sfuggire alcun commento sui baffi materni, né le sue amiche fecero domande al riguardo.
La ragazza fu, dunque, assegnata alla sezione C della quarta ginnasiale, poiché a quei tempi il liceo classico era ancora suddiviso nel biennio del ginnasio e nel triennio superiore.
Inizialmente le compagne di classe arricciarono il naso di fronte alle sue origini ma, ben presto, la bontà e la socievolezza del carattere di Paoletta fecero crollare ogni riserva.
Lo studio della lingua latina e di quella greca si rivelarono, però, un vero e proprio campo minato per la poverina che, con tutta la buona volontà, proprio non riusciva a districarvisi, assimilando queste materie in modo del tutto personale e riducendole a mere barzellette. Per esempio, era convinta che tutte le parole greche terminassero in  os  e tutte quelle latine in  orum, non distingueva un dativo singolare da un nominativo plurale della prima declinazione latina, confondeva i significati dei verbi  e, puntualmente, scambiava i deponenti con la forma passiva.
Per quanto riguarda la lingua greca, in particolare, si ostinava ad ignorare le diverse sfumature di significato di uno stesso vocabolo, e fu così che una volta, in una sua traduzione, Didimo il Cieco, noto filosofo cristiano autore, tra l'altro, di uno scritto in tre libri Sulla Trinità, ricco di citazioni delle Sacre Scritture, ed anche di versi di antichi poeti, divenne "Didimo l'Ottuso". Poi ci fu l'episodio clou: un bellissimo  repente  di un brano di Seneca tradotto con un napoletanissimo  all'intrasatto,4 squisito vocabolo dell'idioma partenopeo ma completamente inadatto per una versione dal latino in un liceo classico.
La permanenza di Paoletta al liceo Garibaldi fu, pertanto, di breve durata, essendosi rivelata negata per lo studio dei classici, per cui non terminò nemmeno l'anno scolastico, tuttavia superò rapidamente la delusione confortata dalla madre che asserì:
-‘O liceo nun  è fatto per mia figlia!  - ma  era la figlia a non essere idonea allo studio dei classici.
E così Paoletta non andò più a scuola ma cominciò ad aiutare la madre in bottega, però, di tanto in tanto, le ex compagne passavano a salutarla e lei ne era felice.
Impettita andava dietro al bancone, prendeva un foglio di carta oleata, lo avvolgeva in senso trasversale, spingeva il bordo inferiore all'interno del cono ottenuto, tuffava il mestolo forato nella tinozza contenente le olive di Gaeta, ne lasciava colare l'acqua, con solennità le versava nel cono e, offrendolo alle amiche, chiedeva:
-Meglio 'o latinorum o nu cuppetiello 5 d'aulive?-6
-
Nu cuppetiello d'aulivos ! - rispondevano in coro le ragazze ridendo.
E, un po' in disparte, rideva anche la madre...sotto i baffi, però.

Francesca Santucci

1 ) venditore di frattaglie bollite di maiale.

2 ) venditrice di olio.

3 ) involucro di carta a forma conica contenente le olive.

4) olive.

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