LetiziaLanza

 

 

 

 

 

da Frustoli di scrittura

(pp. 157-161)

 

Ismene dunque, benché suo malgrado e con autentico dolore, accetta senza troppe riserve i limiti fissi e invalicabili posti a tutela dell'ellenica androcrazia (94). Il che, invece, rifiuta fermissimamente di fare Antigone, nella disperata difesa a oltranza del vincolo fraterno (95): «Io gli darò una tomba. E se per farlo dovrò morire, sarà bello. La mia colpa è santa. Giacerò accanto a lui che mi amava, io che lo amo; devo essere cara ai morti più che ai vivi, perché laggiù io giacerò per sempre» (p. 22).

Immobile è l'animo di Antigone, bloccato nell'eroica – o folle? (96) – determinazione del suo gesto e nella solidità della sua visione del mondo, che le consente di opporsi senza tema a Creonte e alla sua interdizione di sepoltura: «Non è stato Zeus a proclamarla, e Dike, che dimora con gli dei di sotterra, non ha stabilito per gli uomini leggi come questa. Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte (97) degli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando. Per timore di un uomo io non potevo subire il castigo degli dei. Anche senza i tuoi editti, sapevo bene di dover morire. Ma se muoio prima del tempo, io dico che è un guadagno: non è un vantaggio, forse, la morte, per me che vivo in mezzo alle sciagure? Subire questa sorte non è un dolore; lasciare senza sepoltura il corpo del figlio di mia madre, questo è dolore. Per me, non provo pena. Ti sembro pazza? Ma forse è pazzo chi mi accusa di follia» (pp. 33-34).
Così, intrepida, si erge la fanciulla tebana davanti allo zio-sovrano: il quale, con speculare frontalità, contrappone a lei la propria visione del mondo: «Ma un'indole troppo dura è quella che si spezza più facilmente, ricordalo: è come il ferro temprato al fuoco, se indurisce troppo si rompe in mille pezzi. Basta un piccolo morso per domare i cavalli più focosi: e dunque chi si trova alla mercé degli altri non può mostrarsi arrogante. Arrogante si era mostrata questa donna, trasgredendo le leggi stabilite, ed è per la seconda volta arrogante ora che se ne vanta e ride di quel che ha fatto. Non sarò più un uomo, l'uomo sarà lei se questo potere le sarà concesso senza pena» (p. 34)(98). La stessa visione, del resto, che Creonte vuole imporre a Emone, promesso sposo di Antigone: «No, figlio mio, non perdere la testa per una donna, è gelido l'abbraccio di una moglie infida in casa tua. Non c'è male peggiore di una cattiva compagna. Disprezza questa donna – è una nemica –, e lascia che trovi uno sposo giù nell'Ade. Io l'ho colta in atto di aperta trasgressione, lei, sola in tutta la città. Non voglio smentirmi davanti a tutti i cittadini: la ucciderò» (p. 39)
Non c'è legame d'affetto, insomma, non c'è parentela che tenga: la convinzione e il pronunciamento di Creonte perdurano ben saldi, granitici addirittura: «Non c'è male peggiore dell'anarchia; rovina le città, sconvolge le case, e in guerra spezza le file e le mette in rotta. È l'obbedienza, invece, che salva il maggior numero di vite. E dunque, bisogna difendere l'ordine stabilito e non cedere a una donna, a nessun costo. Meglio – se proprio è necessario – cedere a un uomo: almeno non diranno che siamo inferiori alle donne»  (p. 40). Il ripensamento, allora, avverrà solo di fronte alle manifestazioni di un volere super-umano, indubitabilmente suffragate dall'autorità di Tiresia: «E tu sappi, allora: il sole non compirà molte volte i suoi veloci corsi, che tu darai, in cambio di quei morti, un morto, nato dal tuo stesso sangue: perché hai costretto sotto terra una persona che appartiene al mondo, hai chiuso in una tomba un essere vivente, in modo indegno, e sulla terra trattieni invece un corpo che appartiene alle divinità infernali, abbandonato, insepolto, senza onore. E i morti non riguardano te né gli dei dell'Olimpo, ai quali fai violenza. Ma le Erinni che colpiscono tardi, vendicatrici dei morti e degli dei, sono in agguato: anche tu cadrai, vittima degli stessi mali» (p. 51). Soltanto allora, a seguito del duplice suicidio di Emone e di Euridice (100), Creonte riconoscerà il suo forsennato errore: «Ahimè, la colpa è mia, soltanto mia» (p. 58); «Portate via, portate via questo folle che ha ucciso te, figlio, senza volerlo, e anche te, Euridice. Sventurato me, non so su quale dei due posare gli occhi, tutto mi sfugge, un destino intollerabile mi è caduto addosso» (pp. 58-59).Uno scontro così inconciliabile, d'altronde, non può che addurre la rovina di entrambi i contendenti. Perciò, se la forza del potere consente a Creonte di sopprimere Antigone, il suo stesso atto gli si ritorce contro; dal canto suo la fanciulla colpisce a morte l'antagonista, morendo lei stessa appesa a un cappio.