LetiziaLanza

 

 

 

 

 

da Donne greche

(pp. 121-123)

 

Euripide attribuisce  tutto l'orrore dell'infanticidio a Medea, e ciò in contrasto con la tradizione mitica – diffusa, pare, già da Creofilo e ad Euripide con ogni verisimiglianza nota (76) – che attesta l'ostilità dei Corinzi nei confronti dei piccoli innocenti: così  ad esempio pseudo-Apollodoro: «Si dice anche che fuggì abbandonando i figli ancora piccoli, dopo averli fatti sedere come supplici sull'altare di Era Acraia; ma gli abitanti di Corinto li portarono via di lì e li percossero a sangue» (Biblioteca 1. 9. 28, trad. di M. G. Ciani).  Così Pausania: «Si racconta che furono lapidati dai Corinzi a causa dei doni che, secondo la tradizione, portarono a Glauce. Poiché la loro morte era stata violenta e ingiusta, essi facevano strage dei bambini piccoli di Corinto, fino a quando, su consiglio dell'oracolo divino, furono istituiti in loro onore sacrifici annuali e fu eretta una statua del Terrore. Questa resta ancora ai nostri giorni, ed è un'immagine di donna fatta in modo da suscitare spavento; ma, distrutta Corinto dai Romani e sterminati gli antichi Corinzi, i nuovi coloni non celebrano più in loro onore quei sacrifici, né i ragazzi si radono per loro i capelli né portano una veste nera» (2. 3. 6-7, trad. di D. Musti). Così pure Eliano: «Esiste una tradizione secondo cui la fama negativa riguardante Medea è infondata: non sarebbe stata lei, infatti, a uccidere i figli, bensì i Corinzi. Si racconta appunto che Euripide abbia inventato questa leggenda sulla donna della Colchide e composto la sua tragedia dietro richiesta dei Corinzi e che la menzogna abbia finito per prevalere sulla verità grazie alla bravura del poeta» (Storie varie 5. 21, trad. di C. Bevegni). Così, soprattutto, Parmenisco,  per il quale «le donne di Corinto non volevano essere governate da una donna barbara e per questo motivo tramarono contro Medea e decisero di ucciderne i figli: questi si erano rifugiati presso il santuario di Era Acraia, ma i Corinzi, senza rispettare la sacralità del luogo e la loro posizione di supplici, li massacrarono presso l'altare stesso della dea»
È dunque operando una scelta tragica di tal genere – attribuendo cioè tanto orribile delitto  a Medea – è operando in tal modo che Euripide, d'un tratto, viene a privare la donna-maga di ogni ineludibile superiorità legata alla sua sophia. Così facendo infatti, se da un lato condanna Medea in quanto priva di sophrosyne (78), d'altro lato la respinge al fondo della cupa barbarie: quella barbarie, appunto, alla quale l'infido marito si vanta di averla sottratta: «Dalla mia salvezza però hai ricevuto più di quanto hai dato; ascolta: prima di tutto non vivi più in una terra di barbari, ma in Grecia; conosci la giustizia, non usi più la forza ma le leggi; per la tua sapienza, sei nota a tutti gli Elleni: se abitassi ancora laggiù, ai confini del mondo, nessuno parlerebbe di te» (534-541).
Se quindi il comportamento di Medea può trovare una qualche giustificazione sul piano mitico (79), altrettanto vero è che lei, come donna, viene inesorabilmente rifiutata dalla grecità: al punto che l'ultima parola spetta al pur colpevole Giasone (80): «Nessuna donna greca avrebbe mai osato tanto e io ti ho preferito a loro, ti ho sposata – unione odiosa e a me funesta: non sei una donna, ma una fiera, più selvaggia di Scilla, il mostro del Tirreno (81). Ma per quanto ti insulti non riuscirò a ferirti, la tua impudenza non ha limiti. Sii maledetta, donna sciagurata, assassina dei figli» (1340-1347).