LetiziaLanza

 

 

 

Letizia Lanza

La musa seducente di francesca Santucci

DA

DIABOLICA

 

È scritto con il cuore, l'ultimo libro della giovane scrittrice di Dalmine (Donna non sol ma torna musa all'arte, Edizioni Il Foglio, Piombino 2003, I edizione)[1] – e lo rileva bene Piergiorgio Cavallini nelle Considerazioni di apertura: «Ad una mia precisa domanda sul perché avesse tralasciato alcune autrici importanti nel panorama letterario delle rispettive epoche, come Sulpicia del Corpus Tibullianum o come Juana de Asbaje y Ramirez de Santillana, nota come Sor Juana Inés de la Cruz, la monja mexicana, o le scrittrici arabe, da al-Khansa a Naoual Saadaoui, per citare solo due estremi temporali, o la più famosa poetessa cinese Li Ch'ing-chao, o la celebre autrice giapponese Rumika Takahashi, creatrice dei manga, Francesca mi rispose che, al di là dell'esigenza di fornire – come ha fatto egregiamente – una panoramica piuttosto esaustiva della produzione letteraria femminile, aveva scelto le autrici che più le erano congeniali … tanto che, riprendendo una mia semplificazione verbale, parlando dell'argomento Francesca si riferisce familiarmente al corpus antologizzato come a "le mie poetesse", dove quel "mie" la dice lunga sulla comunità di sentire …» (p. 6)[2].

            Un cattivante libricino, insomma – che già il poeta-filosofo Gianmario Lucini definisce «prezioso soprattutto per i riferimenti ad alcune scrittrici dell'antichità, delle quali pochissimo è rimasto e anche quel poco sconosciuto. Un lavoro dunque, anche questo, di notevole impegno anche soltanto per la raccolta del materiale da commentare e presentare»[3].

            Di fatto, come chiarisce il sottotitolo (Letteratura femminile: selezione di autrici dalle origini al '900), pur nella dovizie di citazioni[4] solo un numero ristretto di  muliebri voci ricevono ascolto, qui, da parte di Santucci, e lo motiva l'autrice nella Nota: «Questo libro vuole essere una piccola guida informativa che possa condurre alla scoperta dell'affascinante universo letterario femminile ancora oggi prepotentemente sopraffatto da quello maschile; sono presenti una selezione di autrici, scrittrici e poetesse, tra le più rappresentative ed interessanti dei secoli in cui hanno operato, dalle origini al '900, che, pur non rinnegando l'essere donna, hanno rivendicato la libertà e la capacità di affermarsi attraverso il "maschile" gesto letterario» (p. 9).

            Una scelta di estremo interesse per altro – e in più, di assai piacevole lettura. Tutte presenze autorevoli, con le quali Santucci (con)vive in privilegiata sintonia (vorrei dire, sympatheia) e delle quali ciascuna  – assicura sempre Francesca – «mi ha insegnato qualcosa, a tutte le loro vicende personali mi sono appassionata e tutte le ho amate, perché dietro ogni verso, ogni rigo, ogni sola parola, ho trovato celati un dolore, una lacrima, una sofferenza, un'insofferenza, una protesta, un'inquietudine, una disperazione, un grido di solitudine, un canto d'amore» (p. 9).

            Ecco, dunque, la vera chiave di lettura della raccolta santucciana: è voluta e scritta con il cuore, così da superare d'un balzo ogni riserva che, al di là dei meriti – indubbi – un certo, pur legittimo rigore (rigidità?) storico-filologico potrebbe avanzare[5]. Si sprigiona infatti dalla scrittura di Santucci una sorta di musica tenue quanto penetrante. Tinte fragili e suadenti incromano la trama delle parole. Un giuoco sottile, avvolgente rinnova fasti antichi, lusinghe di un passato lontano eppur contiguo e cogente, di continuo sotteso, ripensato, rivis(su)to. Sprazzi talora abbaglianti di luce che in egual misura (passione?) investono – così da rivelarne le intime peculiarità (e le essenziali coordinate biografiche) – tutte le donne presentate: ovvero «scrittrici e poetesse, cortigiane e nobildonne, ascete e dame, timide e fragili, trionfanti e pioniere, liriche, elegiache, struggenti, appassionate, impegnate, languide e decadenti, autrici autorevoli, ma anche minori strappate all'oblio, che, in varietà di stili, temi e contenuti, hanno saputo imporre o sussurrare la loro voce la cui eco ci arriva dal passato con immutato fascino» (p. 8).

            Ventinove[6] maliose voci, quindi. Dall'anonimo – e tuttavia connotato al femminile – Pervigilium Veneris che tramanda l'Anthologia Latina all'immortale Saffo («amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell'aspetto» – che «amò molto» e il cui «amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante», p. 14) alla Contessa Lara; dalle elleniche Erinna, Anite, Nosside (attive tra IV e III secolo a. C.) alle novecentesche Paola Masino, Lalla Romano, Sylvia Plath; da Christine de Pizan (tardomedievale professionista di copiatura e – quel che più conta – scrittura) a Emily Elizabeth Dickinson a Flor Bela D'Alma da Conceiçao Lobo Espanca (anticipatrice, grazie all'acume irriguardoso e prepotente, del movimento femminista in Portogallo) ad altre illustri presenze[7]. Per non parlare, naturalmente, della diletta Jane Austen, dell'adorata Elizabeth Barrett Browning, delle altrettanto amate Charlotte, Emily, Anne[8] Brontë (Emily, in particolare)[9] – «miracolosa triade poetica» dal fascino «impareggiabile ed irripetibile» (p. 84)[10]. Così, proprio per le maggiori autrici inglesi – Jane, Elizabeth, Emily – Santucci sa trovare espressioni forse le più intense e convincenti.

            Austen infatti, nelle sue parole, è «mito della letteratura inglese, scrittrice dall'elegante stile narrativo, che, con intelligenza, grazia, arguzia, e spregiudicata ironia tipicamente britannica, seppe mettere in ridicolo i costumi della società del tempo. Osannata e denigrata, accusata dai detrattori di aver imbrigliato nel perbenismo il romanzo inglese, considerata da amici e parenti come una zitella inaridita a caccia di marito, la più carina, la più sciocca, la più affettata farfalla in cerca di marito che io abbia mai conosciuta, giudicata, invece, da Virginia Woolf, la più perfetta artista tra le donne per l'immortalità dei suoi libri, e definita da G. H. Lewes Sorella minore di Shakespeare, per l'enorme ricchezza di personaggi che la sua fantasia seppe elaborare, Jane, attingendo dall'esperienza personale, ambientò i suoi libri nel piccolo mondo della nobiltà di campagna e della borghesia di provincia, ritraendo, sempre dal punto di vista femminile, personaggi che ben conosceva e dei quali coglieva sia il profilo psicologico che il comportamento sociale» (p. 73).

            Quanto a Barrett (1806-1861) – alla morte di William Wordsworth (1850) prescelta quale voce ufficiale d'Inghilterra – Santucci richiama anzi tutto l'ammirata dichiarazione del futuro sposo: «I love your verses with all my heart, dear miss Barrett … Era il 10 gennaio del 1845 quando il poeta Robert Browning scrisse la prima ardente lettera, nella quale dichiarava tutta la sua ammirazione, ad Elizabeth Barrett, la poetessa inglese definita in patria la Shakespeare al femminile. Cominciò così la loro romantica storia d'amore, che sembra uscire direttamente dalle pagine di un romanzo ottocentesco, con la corrispondenza durata un anno, l'opposizione del padre ostile e severo, il matrimonio celebrato segretamente, la fuga in Italia, la nascita del figlio» (p. 77). Un evento decisivo, il matrimonio, per Elizabeth. La quale, in precedenza, pur non abbandonando mai la scrittura viveva «sotto la tirannia paterna, in una strana dimora fiabesca, fra pareti silenziose, in una stanza buia dalle imposte ben serrate, tra medicine e libri impolverati[11], sostenuta nelle sue lunghe convalescenze unicamente dall'appassionato bisogno di leggere e studiare, approfondendo soprattutto lo studio dei grandi tragici greci[12], in particolare Euripide (Il nostro Euripide, l'umano, dalle vive e calde lacrime, che se tratta di cose comuni, le inalza fino alle sfere!), che poi confluì nello splendido saggio I poeti greci cristiani, curiosamente incoraggiato e consentito dall'austero padre, e con la sola compagnia dell'inseparabile cagnolino Flush» (p. 78)[13]. Ecco allora perché la lettera di Browning fu «come un raggio di luce in quella casa tetra, in quella stanza buia, in quel cuore avvezzo all'ombra e alla solitudine: la passione s'innescò e brillò fino ad esplodere, e così la poetessa ammalata, famosa eppure chiusa nel cerchio del suo isolamento, uscì alla luce e assaporò la felicità inattesa ed improvvisa» (p. 79).

            Coerente, quindi, con le esperienze di vita pure la cifra poetica barrettiana, con precisione allumata da Santucci: «Con un linguaggio colto eppure semplice, che ben coniuga eleganza e raffinatezza, in preziosa alchimia di classicità e suggestioni romantiche, i versi di Elizabeth, estremamente musicali anche a scapito delle regole metriche, esprimono al meglio ancora oggi l'immaginario femminile, riuscendo a trasmettere con intatta efficacia l'amore che sbocciò nel suo cuore oppresso dalla lunga solitudine e i desideri che pulsano nei cuori delle donne» (pp. 81-82).

            Per quanto concerne, poi, Emily Brontë (1818-1848) – «l'autrice più interessante ed inquietante della narrativa inglese dell'Ottocento» (p. 88) – nelle parole della sorella Charlotte (riferite da Santucci)[14] «non ebbe per natura un'indole socievole, le circostanze favorirono e alimentarono un'inclinazione alla solitudine: tranne che per andare in chiesa o per fare una passeggiata sulle colline, ella raramente varcava la soglia di casa … quanto la sua mente raccoglieva della realtà che le toccava, si riduceva troppo esclusivamente a quei tragici e terribili caratteri di cui la memoria … è costretta a recare l'impronta. La sua fantasia, che era più tenebrosa che solare, più vigorosa che giocosa, trovò in quei caratteri il materiale da cui trasse creature come Heathcliff, come Earnshaw, come Catherine …» (p. 87).

            Di fatto, e lo ribadisce Francesca, non si può comprendere a fondo il notissimo romanzo di Emily (Wuthering Heights)[15] «se non si conosce la vita della scrittrice, la sua incapacità di affrontare il mondo, il profondo affetto che la legava alla casa, alla famiglia, al cane Keeper, alla vita solitaria, l'appassionato attaccamento alla brughiera laddove, fra i campi di eriche, soffiava quel crudele vento dell'est che non poco influiva sui polmoni e sul sistema nervoso delle sorelle Brontë e, soprattutto, l'amore per la scrittura. Fin da piccola Emily, alta, dagli occhi grigi azzurri ed i capelli rossi, femminilmente fragile eppure a tratti mascolina, era stata timida e ritrosa, ma negli ultimi anni della sua vita si produsse un mutamento, per cui si differenziò dalla se stessa di prima ed il suo comportamento divenne simile a quello dei personaggi descritti nel romanzo, forse per l'acquisita consapevolezza di sé, del suo talento, delle sue idee. Cominciò così a staccarsi sempre più dal modo precedente di essere, ad affermarsi, a far valere anche in famiglia la sua personalità, esprimendo in ciò l'atteggiamento tipico dei poeti romantici, che tendevano a tradurre le teorie dei loro scritti in comportamento personale. Sempre secondo le parole di Charlotte, addirittura nell'ultimo anno di vita Emily era divenuta sprezzante, sdegnosa, inflessibile, quasi sovrumana, incurante della sua salute, incupita dalla malattia fatale, la tisi, che la stava conducendo verso la tomba, ma non piegata dal pensiero della morte imminente, che quasi cercò, esponendosi al freddo al funerale del fratello, rifiutando poi ostinatamente di curarsi, ed infine abbandonandosi al male con voluttà» (pp. 87-88).    

            Puntuale e perspicua, allora, la delineazione santucciana di tante eccelse figure – come del resto suggestiva e convincente risulta  la sua analisi delle altre voci, in particolare di talune (magari meno frequentate) poete del secolo XII, quali: Maria di Francia – che «si distingue per la delicatezza e la grazia con le quali descrive i sentimenti di donne infelici per amore, in uno spazio sospeso tra favola e leggenda, e il suo mondo è quello incantato della materia di Bretagna; la realtà trascolora, senza sforzo, in sortilegio magico, i contorni delle cose sfumano e palpitano sotto l'urgenza di una carica interiore di fantasia e di incantesimo» (pp. 32-33); ovvero Beatrice contessa di Dia – nella cui produzione, strettamente legata ai modi e ai temi dell'amor cortese, «vibra tuttavia un forte senso di autenticità, l'espressione del sentimento si libera della ricerca esasperata comune ai trovatori del tempo, e, in espressione limpida e chiara, priva di oscurità, trasmette con grande spontaneità il tenace amore, lo smarrimento, il dolore e lo stupore per l'amore perduto» (p. 38); o, ancora, Compiuta Donzelli – della quale il sonetto richiamato da Francesca (A la stagion che 'l mondo foglia e fiora) «di linea elegante e di rara intimità, memorabile per l'incipit folgorante, che delinea una delicata figura di giovane sensibile e romantica, sembra scaturire direttamente dal repertorio popolare dei contrasti e delle malmaritate. Sviluppa, infatti, il lamento di una ragazza che, forzatamente promessa sposa dal padre, in dissonanza tra il bel tempo e il tormento soggettivo, si sente incapace di condividere le gioie primaverili» (p. 41).

            In aggiunta a ciò, felicità e pertinenza di accenti Santucci inviene nel presentare una delle più illustri e cólte donne del Rinascimento, amata e riconosciuta dal sommo Michelangelo – Vittoria Colonna (1492-1547). La quale, rimasta presto vedova di Francesco Ferrante d'Avalos, marchese di Pescara e capitano generale delle truppe imperiali di Carlo V, proprio durante la vedovanza «divenne il simbolo dello spiritualismo cinquecentesco; compendiando in sé fede cattolica e filosofia platonica, partecipe delle inquietudini religiose e dell'esigenza di riforma e restaurazione morale della Chiesa dell'epoca, si dedicò ad un'intensa vita intellettuale, ma anche al culto della memoria del marito» (p. 51). Ovvero nel commuoversi sulla tragica vicenda «breve e infelicissima, legata a storie di sangue e di barbarie» (p. 54) di Isabella Morra (1520-1546), «chiusa nella solitudine del denigrato sito, il castello paterno, collocato a picco sul mare, sull'infelice lito» (p. 54) e uccisa giovanissima dai fratelli per una presunta relazione clandestina: «Della sua produzione, rivalutata da Benedetto Croce che ne riconobbe il valore di Poesia immortale, restano miracolosamente un esile canzoniere, le Rime, 13 componimenti, 10 sonetti e 3 canzoni, che rappresentano l'impetuosa autobiografia e rivelano la sua indole malinconica e appassionata, ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura. Dimostrando di aver ben assimilato la lezione del Petrarca, considerato sommo maestro da tutti i lirici cinquecenteschi, per Isabella, definita la Saffo lucana, il petrarchismo resta solo un vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni tassiane e leopardiane, con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d'animo, e la tragicità e la potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento» (p. 55). Oppure, ancora, nel compiangere la contrastata quanto discussa esistenza di Gaspara Stampa (1523-1554): «La sua breve vita di donna libera e spregiudicata trascorse, dunque, intensa, tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d'amore, poi troncata dall'amante, che dal 1548 al 1551 la legò al conte Collaltino di Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte andò in Francia al servizio del re e poi l'abbandonò» (p. 59). E tuttavia, «nell'artefatto petrarchismo del tempo», Stampa si distingue per una «sincerità nuova che vince ogni retorica e la spinge a rivelare un mondo interiore femminile, mai confessato prima con tanto coraggio; lampi di desiderio e di passione, colloqui ardenti, soliloqui disperati, abbandono di se stessa alla febbre della passione, illuminazione per una gioia inaspettata, implorazione e abbattimento, struggimento: nelle Rime troviamo espresso tutto il sentimento che squassò la sua anima fino a lasciarle il vuoto, che cercò di colmare rivolgendosi a Dio, ma ogni fibra del suo essere era ancora protesa verso il dolce signore, padrone del suo cuore. Di particolare interesse, poi, i componimenti nei quali rivendica la propria autonomia di scrittrice, il diritto ad avere una propria libertà d'espressione e di sofferenza per amore, sfida insieme alla società e al destino. Essempio infelice del suo sesso si riconosce la Stampa, ma, insieme, non può impedirsi di vivere in foco, di vivere ardendo e non sentire il male, sconsigliando, però, nel contempo le altre donne dal comportarsi come lei» (p. 62). O, più oltre, nell'esaltare le glorie di Emily Dickinson, «poetessa tra le più grandi dell'Ottocento americano e, con Saffo, probabilmente la più grande mai esistita» (p. 91) – la quale, «sola al centro di un mistero, il Mistero, con i sensi affinati e potenziati, con la vista, con l'udito, col tatto, ne coglieva i segnali: la luce particolare di un pomeriggio d'inverno, la linea di uno stelo, un pettirosso tra i rami, il bisbiglio dell'ape, l'arcobaleno multicolore contro il cielo d'un tenero azzurro. E scriveva, scriveva; seduta dietro al suo scrittoio componeva versi enigmatici, allusivi, sfuggenti, a tratti oscuri, versi sulla solitudine, sull'amore, sulla morte, sulla natura, descrivendo boschi, ruscelli, uccelli, prati, talvolta anche elementi mai visti nella realtà, come molti degli animali e dei fiori che conosceva solo attraverso le illustrazioni dei suoi libri» (p. 92).  Ovvero, da ultimo, nel partecipare al dramma di Sylvia Plath, bostoniana, «simbolo delle battaglie femministe negli anni '60» (p. 124), che – sopra tutto nel romanzo The Bell Jar (La campana di vetro, pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lewis) – esprime il «disperato bisogno di affermazione di una donna lacerata dal conflitto irrisolto tra le ispirazioni personali ed il ruolo imposto dalla società. Sylvia non era "matta", era solo una donna fragile, sensibile e in crisi, che aveva tentato di seppellire l'ansia di libertà e la vocazione di scrittrice in un matrimonio apparentemente felice; infatti, non rifiutò mai il suo ruolo, tentò fino alla fine di conciliarlo con le sue aspirazioni, di giorno faceva la madre, accudendo rigorosamente ai suoi figli, alla notte rubava qualche ora per scrivere, cercando di soffocare il proprio istinto di ribellione che riversava solo nelle poesie e che cercava poi di farsi perdonare comportandosi da figlia, moglie e madre esemplare: … non è vero quello che scrivo, sono buona, sono felice, rispetto le regole, lo prova la mia vita, ho fatto tutto quello che una donna deve fare … Infine, però, le aspirazioni a lungo represse riemersero con prepotenza, e le costarono la fine del legame matrimoniale, la solitudine e la morte. Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e di madre, lacerata dal conflitto dell'essere per sé e dell'essere per gli altri, Sylvia lasciò un'infinità di poesie violente e disperate ed un unico elemento di disordine nella cucina del suo appartamento: il suo corpo senza vita» (p. 125).

            Cotali, insomma, e numerosi altri, i fascinosi ritratti santucciani – che la brevità del presente lavoro impedisce di richiamare con minor avarizia. D'identica maniera infatti – con continua, vibrante partecipazione – si compie la sua informata disamina: ed è questo tra i principali motivi che fanno del libro un generoso, caldo, entusiastico omaggio offerto alla letteratura femminile. Un omaggio, inutile dirlo, tutto da leggere e (malgrado una certa sciatteria editoriale) vivamente apprezzare.