Francesca Santucci

Emily Dickinson

(1830-1886)

 

                         

Sarei forse più sola

Senza la mia solitudine.

Sono abituata al mio destino.

Forse l’altra-la pace-

Potrebbe spezzare il buio

E riempire la stanza-

Troppo stretta per contenere

Il suo sacramento.

La speranza non mi è amica-

Come un’intrusa potrebbe

Profanare questo luogo di dolore-

Con la sua dolce corte.

Potrebbe essere più facile

Affondare - in vista della terra-

Che giungere alla mia limpida penisola

Per morire-di piacere.

(1862)

 

Emily Elizabeth Dickinson, poetessa tra le più grandi dell’Ottocento americano e, con Saffo, probabilmente la più grande mai esistita, figlia di un facoltoso avvocato, nacque ad Amherst, nel Massachusetts, nel 1830.
Come tutte le ragazze di buona famiglia ricevette un’ottima educazione, libera e completa per l’epoca puritana in cui visse, sostenuta da un suo innato spirito critico e da indipendenza intellettuale ma, a trentadue anni, per motivi tuttora non chiari, certamente non legati a motivi familiari o ad un’invalidità fisica o a disprezzo per gli altri e per il mondo esterno oppure ad un amore disperato, come aveva preannunciato in una lettera, Non me ne vado più di casa, si chiuse definitivamente in casa, votandosi ad una vita solitaria e silenziosa, mantenendo i contatti solo con pochi amici, comunicando con i familiari a porta socchiusa, e col mondo esterno solo attraverso le sue lettere, vestendo perennemente di bianco, come una sposa.
C’era stato un amore infelice nella sua vita, uno dei suoi tanti amori nascosti, quello per il pastore quarantunenne, sposato e con figli, Charles Wadsworth, l’amico più caro, al quale molte poesie aveva dedicato, ma sembra da escludere che l’esperienza dolorosa dell’amore infelice possa essere stato la causa della sua definitiva scelta di segregazione, potrebbe averla incoraggiata, ma non determinata, anche perché numerose lettere e poesie del 1862, successive alla fine dell’affettuoso legame, indicano che il dolore si era lenito ed il dispiacere era stato superato.
Probabilmente l’isolamento volontario fu una scelta di Emily dettata dal bisogno assoluto di introspezione, di profonda concentrazione in se stessa, di consacrare definitivamente la sua anima alla poesia giacché, come molti suoi versi testimoniano, l’unico mondo che le interessasse era quello interiore, eppure, e qui risiede il fascino dei suoi versi, alla trascendenza del suo mondo poetico corrispondono immagini concrete, dove sono continuamente presenti sia l’elemento spirituale che quello oggettuale, il cosmo ed il piccolo mondo domestico, l’assoluto ed il relativo.
Emily, sola al centro di un mistero, il Mistero, con i sensi affinati e potenziati, con la vista, con l’udito, col tatto, ne coglieva i segnali: la luce particolare di un pomeriggio d’inverno, la linea di uno stelo, un pettirosso tra i rami, il bisbiglio dell’ape, l’arcobaleno multicolore contro il cielo d’un tenero azzurro. E scriveva, scriveva, seduta dietro al suo scrittoio componeva versi enigmatici, allusivi, sfuggenti, a tratti oscuri, versi sulla solitudine, sull’amore, sulla morte, sulla natura, descrivendo boschi, ruscelli, uccelli, prati, talvolta anche elementi mai visti nella realtà, come molti degli animali e dei fiori che conosceva solo attraverso le illustrazioni dei suoi libri.
Ad Emily non interessava pubblicare (infatti, in vita, e senza il suo nome, solo sette poesie furono pubblicate), soltanto esprimersi per liberare le profonde emozioni che, pur vivendo in assoluta reclusione, sentiva in profondità, ma, dopo la sua morte, avvenuta nel 1886, furono ritrovate in un cofanetto 1775 poesie raccolte in fascicoletti, rilegate con cura, che testimoniano per intero l’intensa esperienza umana da lei vissuta: la scelta estrema di solitudine.

 

Francesca Santucci