Contessa Lara

(1849-1896)

 

                          

I dati biografici di Evelina Cattermole Mancini, in arte Contessa Lara, poetessa del tardo Ottocento, rappresentativa dell’età decadente- umbertina, sono abbastanza oscuri per quanto riguarda la nascita e la prima infanzia.
Secondo alcuni sarebbe nata a Cannes da padre inglese e madre russa, ed avrebbe compiuto gli studi presso il Sacre Coeur di Parigi, secondo documenti più attendibili la nascita sarebbe avvenuta invece a Firenze nel 1849; suo padre sarebbe stato Guglielmo Cattermole, di origine scozzese, console inglese a Cannes poi trasferito a Firenze per insegnare, e sua madre Elisa Sandusch, virtuosa di pianoforte, figlia di un’italiana. Evelina avrebbe dunque appreso dal padre le lingue straniere e dalla madre le arti musicali.
A Firenze Evelina frequentò i salotti più rinomati, riuscendo però a conciliare poesia e mondanità, coltivando fin da giovanissima l’attività letteraria (infatti, per interessamento del poeta Dall’Ongaro, nel 1867 pubblicò, non ancora diciottenne, una prima raccolta di versi d’ispirazione romantico-patriottica, Canti e Ghirlande) ma anche suscitando continuo scalpore nelle cronache del tempo per gli scandali e l’avventurosa vita, poi conclusasi tragicamente col suo assassinio ad opera del pittore col quale conviveva.
Proprio a Firenze conobbe il tenente Mancini, di famiglia aristocratica, figlio del famoso giurista Stanislao Mancini, che, nonostante i suoi genitori fossero contrari, nel 1871 la sposò.
Insieme condussero una vita mondana e avventurosa, con lunghi soggiorni a Napoli, a Roma e a Milano, dove l’uomo era stato nominato capitano dei bersaglieri.
E fu proprio a Milano che Evelina entrò in contatto con l’ambiente letterario della Scapigliatura, che le consentì di esprimere liberamente il suo anticonformismo e la sua spregiudicatezza, parallelamente il marito cominciò a trascurarla e a tradirla e fu probabilmente per questo comportamento che la donna cedette al corteggiamento del veneziano Giuseppe Bennati di Baylon, amico del marito, che, scoperto il tradimento lo sfidò a duello e lo uccise.
In seguito la sua inquieta vicenda sentimentale si arricchì anche di un altro nome, quello del poeta siciliano Mario Rapisardi, che l’amò di folle sentimento e la indusse a pubblicare nel 1883 un nuovo volume intitolato Versi, che pure ebbe un notevole successo.
Separatasi dal marito ritornò a Firenze dove visse modestamente con la nonna, avviando proprio in questi anni, spinta dalle necessità economiche, la collaborazione a vari quotidiani e riviste, come il "Fieramosca", "Fanfulla della domenica" e "La tribuna illustrata", firmandosi Contessa Lara, pseudonimo che molto piacque all’editore Sommaruga, che le pubblicò una raccolta di versi subito amati dal pubblico.
Qualche tempo dopo si trasferì poi a Roma, dove ebbe molto successo come autrice di romanzi, ma dove pure condusse una turbolenta vita sentimentale: conclusa una relazione tranquilla, l’unico amore sereno della sua esistenza, con il giovane letterato Giovanni Alfredo Cesareo, si legò di grande passione a Giuseppe Pierantoni, pittore di modesto talento, che aveva illustrato il suo libro Romanzo della bambola.
Quando Evelina, stanca dei soprusi e dei ricatti continui che subiva da colui che da amante era diventato suo sfruttatore, tentò di ribellarsi, il 30 novembre del 1896 l’uomo la uccise con un colpo di pistola.
In agghiacciante coincidenza tra letteratura e vita Evelina morì proprio della stessa morte violenta che tante volte aveva descritto nelle sue opere.
Nel 1987, postumo, fu pubblicato un suo nuovo volume: E ancora versi.
Poetessa dotata di una personalità stilistica decisamente autonoma nel panorama letterario di quegli anni, ma assai vicina al decadentismo, Contessa Lara ha sempre suscitato un alone di diffidenza nei suoi riguardi, la sua arte è stata sovente danneggiata dall'aura dannunziana e kitsch- decadente, diffusa intorno alla sua figura ; lo stesso pseudonimo dannunziano, la morte violenta, l'atmosfera voluttuosa di certe sue composizioni, l'hanno relegata tra quelle cose di "pessimo gusto" di gozzaniana memoria, eppure i suoi versi, lirica confessione legata soprattutto alla propria esperienza sentimentale, nei quali confluisce, in maniera quasi ossessiva, l’autobiografismo, elemento dal quale tuttavia, con la maturità, seppe distaccarsi, sono eleganti e raffinati.
Un canto travagliato, quello di Contessa Lara, ridicolizzato da Giosuè Carducci che ironizzava addirittura sul suo pseudonimo, anche avversato, da quel Conte di Lara, in realtà Domenico Milelli, uomo dallo spirito mordace e poeta garibaldino enfatico e monotono che più nessuno oggi ricorda, che prima le fu amico e poi l’attaccò definendola "nemica", eppure molto amato fin dalla sua prima pubblicazione del 1883, Versi.
Il desiderio d’amore, la necessità di un io mascolino stabile e forte al quale appoggiarsi, il binomio amore- morte, la tormentata religiosità, la paura del destino, l’acuto presagio della sua stessa fine violenta, il senso della fragilità emergente anche dal bisogno continuo di descrivere gli oggetti di cui si circondava e nei quali si riconosceva, la passività, la solitudine, l’attenzione alle piccole cose, alla quotidianità raccontata con disincanto, quasi fotografata, sono i temi fondamentali di questa incantevole poetessa che seppe essere lieve ed ironica, delicata ed appassionata, colta eppure disarmante nella sua semplicità, documentando un bel ritratto di donna fin de siècle, in assoluta adesione al suo tempo anche nelle manifestazioni più esterne, femminile ed inquieta: "dama e poeta".

I.

DI SERA

Ed eccomi qui sola a udir ancora

il lieve brontolìo de’tizzi ardenti;

eccomi ad aspettarlo: è uscito or ora

canticchiando, col sigaro tra i denti.

Gravi faccende lo chiaman fuora;

gli amici a ‘l giuoco de le carte intenti,

od un soprano che di vezzi infiora

d’una storpiata melodìa gli accenti.

E per questo riman da me diviso

fin che la mezzanotte o il tocco suona

a l’orologio d’una chiesa accanto.

Poi torna allegro, m’accarezza il viso,

e mi domanda se son stata buona,

senza nemmeno sospettar che ho pianto.

II.

ASPETTANDO

Mi susurrò- Domani. Ed io: - Domani

m’avrai ne le tue braccia a l’istessa ora;

fra i tuoi capelli passerò le mani,

tu, sognando, dirai che m’ami ancòra.-

Ecco, son qui. Lo attendo. A i più lontani

passi, a ogni lieve suon che vien da fuora

tendo l’orecchio, e in desideri arcani

frugo con gli occhi la gentil dimora.

E’ un vago nido. Le finestre aperte

di primavera invitano a l’incanto:

scherza il sole tra i fiori e si ‘l velluto.

Io, l’armi antiche e i quadri, onde coperte

son le mura, contemplo; e penso intanto

qual tesoro di baci ho già perduto.

III.

IMPRESSIONE

Nella sala da pranzo ampia e fiorita

d’antichi arazzi, il sol s’indugia un poco

in una lista d’oro scolorita,

mentre scoppietta nel camin il fuoco.

E’ un tramonto d’inverno. Ecco la vita.

Ecco quale vorrei che a poco a poco

mi fuggisse dagli occhi, scolorita;

mentre in una quiete ampia e fiorita

gli ultimi sprazzi ancòr mandasse il fuoco.

IV.

DAMA POETA

Forse da messa o da un bazar tornata,

ne l’intenso calor de’l mezzogiorno,

entra ne la camera e la grata

penombra beve de’l fresco soggiorno.

Qui scorre una fontana profumata

in una coppa d’onice a contorno

d’oro, un palmizio dorme a la vetrata

sotto un ciel di raso a pizzi adorno.

Ella ride spogliandosi a lo specchio,

e sorseggia il thé verde lentamente

da una tazzetta di Giappone vecchio;

Poi de la scrivania sopra le carte

Chinato il picciol capo intelligente,

donna non sol ma torna musa a l’arte.

V.

DESIDERIO

O povere mie carte,e resterete

con secchi fiori e ciocche di capelli,

rinchiuse entro uno stipo,in fra segrete

ricordanze de’miei giorni più belli!

Non è per voi di gloria avida sete

il duel che fa che in pianto io vi favelli,

io che sol chiedo a l’arte intime e liete

larve onde il ver per poco si cancelli.

Ma egli è il desio d’una manaccia bianca

che vi scompigli un dì,ne la parola

cercando questa offesa anima stanca:

la man che chiude gli occhi e che consola

quando la vita ne la madre manca

voi, carte, ingiallirete,io morrò sola.

 

Francesca Santucci