Francesca Santucci

Chi sono io?

edizioni A.L.I. Penna d'Autore,
 gennaio 2005
   Pagine: 139
   Prezzo: 10,00 euro

Furor fit laesa saepium patientia.1

La pazienza spesso provocata diventa ira furibonda.

 

Praticamente tutto il quartiere  era in apprensione per le condizioni di salute di Pasquale Da Pozzo, colpito in primavera da un leggero ictus che lo manteneva in uno stato di sospensione tra la confusione mentale più totale e qualche raro momento di lucidità, senza tuttavia  intaccare né l’appetito del vecchio, che rimaneva buono, né la forte antipatia che aveva sempre nutrito per il genero e che, anche in quelle condizioni, non mancava di lasciar trapelare.
Pasquale Da Pozzo era  sempre stato  buono, ma non fesso, e aveva capito subito che quel notaio squallido e anonimo, eternamente sudato sia d’inverno che d’estate, con le mani bianche e mollicce, gli spessi occhialini da miope, lo sguardo finto ingenuo di chi  vuole fare il furbo credendo di potersi impunemente servire degli altri, non aveva sposato sua figlia per amore, ma per la cospicua eredità che le sarebbe toccata dopo la sua morte.
I Da Pozzo erano infatti di nobili natali, la loro famiglia aveva avuto origine in Toscana  nientedimeno che da un ramo collaterale degli Alighieri, nell’alto medioevo, e l’etimologia del cognome si faceva risalire all’eroico gesto del cavaliere Baldo, lontano antenato, che aveva compiuto un burrascoso salvataggio di una bambina caduta in un pozzo.
C’era, però, qualche incredulo che metteva in dubbio questa spiegazione perché non capiva come mai un nobile non abitasse in un castello, o quantomeno in luogo più signorile della popolare via Arenaccia, e allora si ironizzava che sicuramente la bambina doveva essere caduta in qualche altro tipo di buca, meno profonda e meno romantica. La verità è che una serie di investimenti sbagliati avevano portato i Da Pozzo a scendere sempre più in basso nella scala sociale, ma mai a toccare il fondo, e comunque rimanevano dei benestanti, democratici, di buon cuore e, tutto sommato, dei veri signori.
La moglie di Pasquale era morta di parto subito dopo la nascita della figlia Eleonora, e l’uomo si era preso cura della bambina con una devozione ed un amore totali. Probabilmente era convinto che la ragazza non si sarebbe mai separata da lui ed invece, non solo  si era sposata ma con un individuo che non gli andava a genio nemmeno un poco  però, da vero signore di nobili natali, non si era opposto al matrimonio, non aveva mai detto una parola fuori posto al genero, tanto meno aveva manifestato i suoi reali sentimenti alla figlia, solo lo sguardo perplesso  che, di tanto in tanto, rivolgeva al genero,  aggrottando le  bianche sopracciglia, lisciandosi col pollice e l’indice il labbro superiore, lo tradiva ma, appena si accorgeva di essere osservato, si affrettava a ricomporre la maschera facciale ad un atteggiamento di assoluta neutralità.
E poi, incautamente, un giorno  aveva  confidato  ad  un vicino, che si era affrettato a far sapere ad un altro vicino, e questi a sua volta ad un altro ancora, che cosa ne pensasse realmente  del marito della figlia, ma sempre molto signorilmente ed educatamente, e la cosa era divenuta di pubblico dominio.
Da qualche giorno le sue condizioni di salute sembravano peggiorate ed il medico faceva la spola tra l’ambulatorio e casa Da Pozzo, segno evidente  che il momento del trapasso era ormai imminente.
Una piccola folla di familiari, amici e semplici conoscenti, si dava continuamente il cambio intorno alla futura orfana, per offrirle tutto il sostegno psicologico richiesto dalla delicata circostanza, ed anche per darle un aiuto concreto nel caso che le servisse qualcosa di materiale.
Eleonora apprezzava ma restava silenziosamente, ostinatamente e dignitosamente (come si  conveniva ad una ragazza di nobili origini) chiusa nel suo dolore, seduta  al capezzale dell’amato padre  che, ormai già da diverse settimane, non  riconosceva  più nessuno. 

***

Quel giorno, dalla cucina attigua alla camera del moribondo, si levò un improvviso brusio,  un cicaleccio concitato di voci femminili che tacque solo per fare posto ad un’unica voce, quella dell’intero vicinato che all’unisono annunciava:
-Donna Eleono’, sta salendo vostro marito!-
Donna Eleonora alzò gli occhi dal rosario che stringeva tra le dita, rivolse un accorato sguardo al padre, sospirò e poi, con un filo di voce, rispose:
-Sì, …tanto…- con un’indeterminazione ed un’indefinitezza nel tono della voce che, per chi conosceva  un poco i Da Pozzo, erano illuminanti sul rapporto esistente tra  suo padre e suo marito, e sulla considerazione in cui era tenuto quest’ultimo dal povero vecchio in pigiama e papalina.
Preceduto dal codazzo di  vicini che si  era  passata la voce fino alla camera  del moribondo, Nicolino  entrò lentamente, a fatica, col passo strascicato, col suo vestito grigio topo, la cravatta allentata, il viso grondante sudore continuamente asperso da un largo fazzoletto bianco, una grossa borsa di pelle nera stretta sotto un’ascella.
Si avvicinò al letto e chiese  genericamente ai presenti:
-Come sta? Capisce o non capisce. E’  in sé o è fuori di sé?-
Sua moglie scosse la testa, qualcuno scrollò le spalle, qualcun altro asciugò una lacrima.
-Aspettate, mo’ ci penso io. Volete vedere che mi riconosce? – asserì l’uomo sfoderando un ottimistico sorriso a trentadue denti.
-Sì, sì, prova…- sussurrò la moglie.
-Sì, sì, provate! - lo incoraggiarono i presenti sorridendo rassicuranti  e disponendosi meglio nella stanza per godere la scena.
Nicolino si accomodò sul letto di fronte al marchese, puntò la sinistra sul materasso per tenere l’equilibrio, con la destra si slacciò  la cravatta, asciugò ancora una volta il sudore che gli scendeva a rivoli dalla fronte, ripose il fazzoletto nella tasca della giacca e poi cominciò a chiamare:
- Papà? …Papà?…Marchese?…-
Pasquale Da Pozzo spalancò gli occhi e guardò fisso l’uomo che ricambiò lo sguardo con un’identica espressione un poco ebete. Allora Nicolino si schiarì la voce e, fissandolo, in tenera cantilena chiese:
-Papà, guardatemi: mi riconoscete? Papà, papà, marchese, chi sono io?-
Eleonora aveva il cuore alla gola e un tremito che le trapassava tutto il corpo per l’agitazione, ed anche i presenti erano partecipi del suo stato d’animo. Tutti, ma proprio tutti, erano in sospensione per la risposta, e non un suono, non un sibilo, non un respiro risuonavano  nella stanza.
L’uomo ripeté la domanda:
-Chi sono io?-
Il vecchio ebbe un sussulto, si riscosse come se solo allora avesse messo a fuoco la situazione e parve perdere l’espressione terrorizzata che poc’anzi aveva esibito all’apparire del genero. Negli occhi gli balenò, per un istante, una luce divertita, poi il volto s’incupì, ridivenne serio e sollevò un poco la testa dal cuscino:
-Marchese?...Papà?…Parlate! Rispondete! Chi sono io?
Pressato dalla domanda, incalzato dagli sguardi dei presenti in apprensione ma, soprattutto, desideroso di liberarsi del macigno che lo opprimeva, sempre sostenendo lo sguardo dell’interlocutore, con atteggiamento di grande fierezza,  come quel Farinata suo conterraneo che aveva il mondo in gran dispetto, 2 finalmente sbottò.
Senza esitazione, con calore e decisione, in modo poco signorile, con un linguaggio affatto elegante, per nulla consono ad un appartenente ad una famiglia di nobili origini, che nemmeno lontanamente ricordava il sacro idioma fiorentino parlato dai suoi antenati,  essendo decisamente colorito dialetto partenopeo che, in quella circostanza, si rivelava essere il più adatto per l’espressione dello stato d’animo che, da tempo, opprimeva il cuore del povero vecchio, il marchese Da Pozzo finalmente esclamò:
- O frate d’o  cazzo! -
Poi ripiombò sul cuscino e spirò!

Francesca Santucci

 

1) Chi sono io?

2) La Divina Commedia ( Inf. IX, 36 )