Angela Mariani

 

Dewi Danu

I)

Quando la foschia della montagna viene spazzata via da una leggera brezza, appare - splendido nella sua semplicità e sensuale come una donna esotica - Bratan, lago vulcanico della zona nord occidentale di Bali. Uno specchio per un cielo di un blu cobalto geloso di sguardi, spesso velato di nuvole, in quella regione.
Sulla riva del lago, volgendo lo sguardo ammirato tutt’intorno e all’orizzonte, si può vedere la riva opposta: segno che Bratan non è, poi, così grande!
A me, italiana del Sud, ricorda in qualche modo il lago d’Averno, piccola conca nostrana, anch’esso di origine vulcanica.
Stessa magia.
Stessa presenza “femminile”, dilagante tutt’intorno. Qui la Sibilla, lì Dewi Danu: la dea delle acque. Qui, come lì, un ampio bacino, come un ventre generoso, che conserva e crea la vita nel proprio fluido acquatico. Nel lago sacro a Danu, solo pochi anni or sono, sono stati sacrificati animali, adorni di monili d’oro, annegandoli nelle sue acque: riportati al ventre materno e terribile della dea, che ricambia con raccolti abbondanti.
Danu e Sibilla: due volti distinti e lontani, ma così tanto simili fra di loro, della Grande Madre Terra.
Qualcuno afferma che – dietro il mio aspetto matronale e quasi austero – si celi un animo gentile e romantico: non saprei. So solo che - quando ho ascoltato la storia di Dewi Danu, sposa del dio che “abita” il vicino monte Catur, e preposta alla salvaguardia delle coltivazioni di riso della zona - mi aspettavo che, improvvisamente, dal centro del lago, apparisse una mano illuminata da una luce color smeraldo che mi offrisse Excalibur, o una sua versione più “orientale”: che confusione! Sarà, forse, per via di quell’atmosfera magica, sottile e penetrante che - come dicevo - avverto molto simile qualora mi reco all’antro della Sibilla Cumana.
Il lago sorge al centro di un piccolo ed elegante parco: un’oasi di giardini tropicali, di spazi aperti e piccoli sentieri che separano ricche distese di verde curate da mani amorevoli.
Nel lago, su di un isolotto presso la riva, sorge il tempietto, risalente al XVII secolo, dedicato a Dewi Danu.
Una piccola oasi, dunque, il cui cuore, femminile e fluido, è il lago Bratan.
Chi si è recato a Bali saprà che i balinesi sono un popolo che adora riti e cerimonie. Non è difficile incontrare - durante il giorno - donne che portano sulla testa, in perfetto equilibrio, enormi cesti di frutta in omaggio alle divinità, e uomini, adorni dei costumi locali, che, in variopinte sfilate, si recano ai templi per una delle tante cerimonie, attraversando le strade dell’isola, le spiagge e le viuzze che separano risaia da risaia.
Così anche ad Ulun Danu: numerosi sono i fedeli giunti in pellegrinaggio, e la spiritualità riesce a farsi sentire anche fra le orde di turisti che arrivano in massa.
All’interno del complesso un cortile, difeso da sguardi indiscreti da un alto muro di cinta, ospita i balinesi induisti che si riuniscono per le cerimonie religiose.
La prima volta in cui mi sono recata lì - lo ammetto - anche io ho peccato di invadenza! Presa dal mio girovagare curioso ho varcato - con distrazione - la soglia della piccola porta semichiusa che dava nel cortiletto, per scoprire un gruppo di fedeli inginocchiati, in preghiera, raccolti in una devozione davvero profonda e mistica.
Mi sono sentita un verme!
Non sono stata “cacciata” e non ho avvertito alcuno sguardo di biasimo: piuttosto qualche timido sorriso di benvenuto, quello sì, ma la sensazione, molto sgradevole, di aver varcato uno spazio troppo “intimo” era chiarissima, in me.

II)

Tentando di rendere la “ritirata” dal cortiletto quanto più invisibile agli occhi dei fedeli, e ripresa la mia passeggiata, quale è stato il mio stupore nell’imbattermi in uno Stupa Buddhista! Mi hanno detto, poi, che è molto antico ed è l’unico esistente nell’isola. Quattro Buddha, seduti in nicchie orientate verso i punti cardinali, sono arricchiti da drappeggi di tessuti i cui colori corrispondono - secondo l’Induismo - alle quattro direzioni: sincretismi e mescolanze di fraternità!
Più avanti, in un’altra area, una costruzione più recente: una moschea dove si recano fedeli musulmani per la preghiera.
Penso al resto dell’Indonesia. Penso all’Irlanda. Penso alle Twin Towers. Penso al mondo!
E penso: alle miriadi di turisti che si recano lì e tagliano le acqua sacre di quel lago con sci d’acqua o con piccole imbarcazioni che diffondono puzza di carburante bruciato, tutt’intorno; e penso agli stessi turisti che arricciano il naso nell’attraversare zone maleodoranti (se ne incontrano spesso, in Oriente) di cattivi odori, però, fatti di “natura” decomposta! Guardo involucri di patatine e popcorn e lattine di bibite, dimenticate con incuria sui bei prati, e mi domando come si fa a non “leggere” gli insegnamenti di un piccolo popolo che sta annegando nella sua stessa disponibilità ad accogliere l’altro, il “diverso”, e che ci suggerisce che il divino è unico, e che inutili sono gli omicidi per affermare la bontà di uno solo dei suoi aspetti, a scapito degli altri!

Penso alla Sibilla Cumana. E, alla “napoletana”, mi dico che “tutto il mondo è paese”: la nostra civiltà, antica di secoli, messa a confronto con la loro, altrettanto antica.
Simili disponibilità “interiori”, simili bacini di acque ristoratrici ed accoglienti emersi da profondità infuocate, anch’esse depositarie di un femminile magico e terribile, simili modi di “sentire” evocati da una spiritualità di natura elevatissima, quando non sono soffocati da sovrastrutture pseudoculturali.
Una globalizazzione, insomma, verace e non indotta che, grazie alla sua stessa essenza naturale, conserva intatte le differenze azzerando solo le discriminazioni. Che insegnamento!
Sempre più spesso mi chiedo cosa porti così tante persone a visitare le terre d’Oriente. Le risposte possono essere molteplici ma una, fra tante, risuona più e più volte dentro di me: credo che l’Oriente, in qualche modo, ci appassioni così tanto perché conserva e mostra (ahimè, ancora per poco!) le nostre stesse perdute radici. Tradizioni che abbiamo “consumato” in bicchieri di bibite brune e frizzanti - sorseggiate distrattamente (come si addice alla loro stessa “consistenza” intrinseca) e passate con uguale distrazione, come delle staffette, fra le mani ignare di questi popoli-bambini, specchio di noi stessi solo pochi decenni fa - attribuendo ad antichi riti una crudezza ed una primitività che nulla hanno a che vedere con le atrocità alle quali siamo oramai assuefatti.
I miei ricordi d’infanzia, delle espressioni raccolte di donne pie che seguono devotamente le processioni religiose “nostrane”, rinverdiscono tutte le volte in cui il mio sguardo incrocia quello di una donna devota in preghiera, a Bali.